"Affetto per i rapitori? Solo autodifesa"

Il docente di psicologia forense: "La sua percezione è alterata dalla paura di morire"

"Affetto per i rapitori? Solo autodifesa"

Non si sa quando, ma Silvia Romano tornerà tra noi. «Con questo non intendo dire che abiurerà la conversione all'Islam. Questa scelta, soprattutto se la ragazza inizierà a frequentare la comunità musulmana, potrà anche diventare permanente. Ad essere reversibile, fortunatamente, sarà l'atteggiamento mentale cui assistiamo in queste ore: la simpatia per i suoi sequestratori, per i suoi aguzzini. Questo è spiegabile solo come un frutto delle sofferenze mentali e fisiche cui è stata esposta, e, anche se a fatica, riuscirà a liberarsene».

Guglielmo Gulotta, ordinario di psicologia forense, studia da sempre i meccanismi complessi che intercorrono tra vittima e colpevole, ancora di più tra sequestrato e carceriere. Fu tra i primi a leggere una lettera di Aldo Moro ostaggio delle Br. «La grafia era la sua, ma era chiaro che non era libero. La stessa cosa avviene oggi con Silvia. Non sta fingendo. Quando dice di essere stata trattata bene ne è davvero convinta. Ovviamente non è così, per mesi e mesi è stata in mano a uomini spietati che decidevano al posto suo quando poteva mangiare, riposarsi, andare in bagno. La sua percezione attuale di questa esperienza è figlia di una percezione alterata».

Parliamo della famosa sindrome di Stoccolma?

«Prima ancora dei fatti di Stoccolma, Anna Freud identificò con chiarezza i meccanismi di identificazione con l'aggressore. Un bambino in un corridoio buio che faceva gesti strani e rumori senza senso spiegava: io ho paura dei fantasmi, ma se sono un fantasma anch'io allora non devo più avere paura di loro. Silvia ha reagito allo stesso modo, mettendo in atto un meccanismo di regressione dell'io allo stato infantile, in cui i suoi sequestratori diventavano figure genitoriali. Sviluppare un sentimento affettivo verso queste figure è stato un meccanismo di difesa».

Nonostante le vessazioni di cui c'è prova, e che oggi lei nega?

«Sapeva che avrebbe potuto venire uccisa, ha dovuto convivere fin dall'inizio con questa consapevolezza E se invece non vieni ucciso il resto non ti importa, ti sembra di essere trattato bene, sviluppi addirittura una forma di gratitudine».

Possiamo ipotizzare che prima abbia simulato per sopravvivere, e che un po' per volta si sia autoconvinta?

«Non credo, semplicemente si è adattata progressivamente alle circostanze in cui si è venuta a trovare. L'essere umano ha capacità di adattamento straordinarie».

Adesso quanto può essere difficile per lei ritornare alla realtà?

«Molto. Patricia Hearst, l'ereditiera americana che si era schierata con i suoi rapitori, impiegò tempo per fare marcia indietro. La libertà può fare paura. Lo vediamo anche in questi giorni con la fase due delle misure anti-Covid: c'è gente che fa psicologicamente fatica a uscire di casa. Figuriamoci Silvia, che viene da una deprivazione della libertà ben più lunga e più totale».

Quindi oggi, a suo modo, questa ragazza è sincera quando descrive il suo inferno quasi come una vacanza.

«Credo proprio di sì.

Ovviamente esiste, in teoria, un'altra possibilità: che oggi sia costretta a dire così, che stia recitando una parte perché in qualche modo obbligata a farlo. È una ipotesi che in questi casi chi interroga il soggetto è obbligato a tenere presente. Ma, per quanto ne sappiamo, non ci sono indizi in questo senso. E quindi sì, devo rispondere che Silvia Romano è sincera».

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