Gli anti-Renzi sono alla frutta Basta una cena e salta la Ditta

Il bersaniano Zoggia cerca di riunire al ristorante tutti i capifila della minoranza per organizzare un'azione comune. Ma ognuno pensa solo alla propria visibilità

Sta di fatto che la sinistra Pd, nonostante la rumorose e feroci esternazioni anti-premier, sta messa così maluccio da non riuscire neppure ad organizzare una cena, figurarsi una vera corrente o - addirittura - un nuovo partito. La notizia la dava ieri la Stampa: il bersaniano Davide Zoggia ed altri stavano cercando di convocare attorno allo stesso desco tutti i capifila della minoranza per organizzare un'azione comune, dopo l'affondo di Matteo Renzi alla Leopolda contro la Cgil e la vetero-sinistra. Nel menù il Jobs Act, la legge di Stabilità e l'Italicum, tutti terreni su cui organizzare la resistenza anche parlamentare verso il premier. Invece, niente: dinieghi, veti incrociati su chi dovesse partecipare e chi no, scuse tipo «c'è la partita della Roma». «Ma che mi devo dire io con Pippo Civati, uno che ha cominciato con Renzi e ora dà addosso a Renzi pure se quello dice che è una bella giornata?», allarga le braccia Nico Stumpo. «Ma quale cena, qualcuno farebbe meglio a stare a casa e farsi un brodino caldo», sbotta Enzo Amendola.

Quanto siano distanti le posizioni, dentro la stessa Area Riformista (corrente bersanian-dalemiana) lo racconta bene il duro scontro scoppiato sul ruolo di Giorgio Napolitano: il bersaniano ultrà Alfredo D'Attorre, ieri mattina ad Omnibus su La7, ha attaccato il presidente: «E' stato il regista del tentativo di uscita dalla crisi, e ha fallito: una linea che non è servita nè alla sinistra né al paese». Dall'ala napoletaniana della sinistra è subito partita la controffensiva: «Napolitano è un grande presidente, esempio per il paese e per l'Europa. Forse D'Attorre aveva digerito male la caponata stamani», attacca Andrea Manciulli. «Sto con Napolitano, senza dubbi», rincara Amendola. «D'Attorre? Un cretino che ormai pur di stare in tv e sui giornali dice la qualunque», infierisce un altro dirigente della minoranza.

Quanto alla scissione, termine che Gianni Cuperlo non vuole neanche «sentire evocare», difficile trovare qualcuno che la ritenga praticabile: «Ma quale scissione? Non si sa quando si andrà a votare né con che legge, e la primavera prossima ci sono le Regionali: se ci scindiamo poi dobbiamo inevitabilmente chiedere l'alleanza a Renzi, che naturalmente ci dirà marameo. Così il nuovo partito muore prima di nascere...», è la lucida sintesi di un parlamentare della minoranza. Che spiega perché Renzi non dia molto retta a minacce come quelle della Bindi: «Se Renzi non vuole la scissione, deve decidersi a parlare con la minoranza».

Restare dentro il Pd e «incalzare» il premier, è la linea dei più. Innanzitutto sul Jobs Act: «Senza un emendamento che riprenda ciò che si è votato in Direzione sui licenziamenti disciplinari, 25 di noi non voteranno la fiducia», assicura Zoggia.

Il governo vuole accelerare e votarlo entro fine novembre, la minoranza farà di tutto per rallentarlo in commissione, dove è più forte. «Renzi dovrà per forza trattare», assicurano. Ma il fronte più importante, spiegano, sarà l'Italicum: «Faremo di tutto per far sopravvivere la specie: se passa come vuole Renzi siamo finiti», sintetizza un ex Ds.

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