Coronavirus

Bergamo non si arrende. L'ultimo miracolo è l'ospedale in 7 giorni

L'opera realizzata grazie agli sforzi di tutti: alpini, volontari, artigiani e ultrà atalantini

Bergamo non si arrende. L'ultimo miracolo è l'ospedale in 7 giorni

Sette giorni, senza riposarsi, perché nessuno di loro è Dio e di tempo qui davvero non ce n'è. Non c'è da settimane. Ogni giorno che passa è una fila di croci, da immaginare, perché Bergamo ancora fatica a seppellire i morti. La speranza, che non è un'illusione, ma qualcosa di concreto, che si vede, si tocca, è questo ospedale messo su in fretta, senza troppe parole, lavorando di giorno e di notte, anche qui come a Milano dentro la Fiera.

Questo virus ti toglie il fiato. Ti ammazza lasciandoti senza respiro. La differenza tra la vita e la morte la fa un posto in rianimazione. Ossigeno sì, ossigeno no. La salvezza è molto spesso trovare un letto in terapia intensiva. Qui ce ne saranno 72, più altri 72 per soccorso e convalescenza, in tutto sono 140. Non è finita, ma è il modo per superare l'emergenza, per permettere a medici e infermieri di non lavorare oltre il limite, per non affidarsi solo ai miracoli, per non ritrovarsi sempre al confine dell'impossibile, per non dover scegliere. Il nuovo ospedale è questo. È una boccata d'aria. È uno squarcio di luce che rompe l'assedio.

Ci hanno lavorato in tanti. Gli alpini, quelli in congedo, quelli dell'Associazione nazionale dei reduci e poi gli uomini della Protezione civile, gli artigiani della città, i ragazzi della curva dell'Atalanta, volontari e professionisti di Emergenzy e centoquattro militari, tra cui 32 medici, arrivati da Mosca e poi le donazioni, con nome e senza nome, di una città che non chiede, non urla, piange in silenzio, ma non si arrende. Bergamo è il fronte del contagio, eppure rischi quasi di dimenticarla, perché sconta la sua tragedia con la dignità di chi non ce la fa a raccontarsi in ginocchio e sta lì come un pugile alle corde, con il volto maciullato, che con orgoglio e ostinazione rifiuta di buttare la spugna. Prega e non supplica. Non li sentite i bergamaschi. Non li vedete in televisione. Non parlano, non dicono, non si lamentano e questo stesso ospedale è venuto su quasi d'incanto, impastando fatica, speranza e dolore.

Il presidente degli artigiani bergamaschi si chiama Giacinto Giambellini. Quasi si stupisce davanti a tutto questo. Dice: «Abbiamo finito. Le camere sono fatte, i letti sono dentro. È allucinante, una settimana fa c'erano 200 persone che lavoravano qua, adesso solo silenzio». Non c'era neppure un piano preciso. Si è andati avanti improvvisando un passo alla volta, per vedere fino a che punto si poteva arrivare. Lo racconta Sebastiano Favero, presidente dell'Associazione nazionale alpini: «Siamo partiti con l'idea di una struttura da campo, sulla base della nostra colonna mobile. Come si fa in battaglia. Il progetto è stato modificato in corso d'opera. Il risultato è che siamo riusciti a costruire un ospedale vero e proprio». Gli alpini si sono ritrovati a lavorare fianco a fianco con i nemici di un tempo, perché sono passati sessantasette anni dalla battaglia di Nikolajewka, sul fronte russo della Seconda guerra mondiale, quando gli alpini del Don si ritirarono, disperati, verso un nemico ancora più temibile di quello che li aveva sconfitti, il freddo e il gelo di un inverno senza pietà. L'ospedale di Bergamo nasce anche da questo patto contro la storia.

È, come dice Attilio Fontana, presidente della Regione, un altro colpo di reni della Lombardia a tutto quello che sta accadendo. Bergamo dopo Crema, Cremona e Milano. Non è facile fare i conti con il contagio, magari ci sono stati anche errori, ma la risposta c'è stata, un fronte di resistenza a un evento che forse in pochi si aspettavano così devastante. L'ospedale sarà gestito dai dirigenti del Giovanni XXIII.

Tocca ancora a medici e infermieri stare in prima linea, fino a che serve, fino a che non sarà finita.

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