Bersani minaccia il premier Ma la minoranza Pd è divisa

L'ex segretario avverte: «Se l'Italicum non cambia, non lo voto», i dissidenti però si muovono in ordine sparso. La Boschi: «Chi ha perso il congresso non detti legge»

Bersani minaccia il premier Ma la minoranza Pd è divisa

La riforma del Senato passa senza colpo ferire alla Camera, e Matteo Renzi mette con soddisfazione un'altra tacca: si è divisa l'opposizione, un po' dentro e un po' fuori dall'aula, con Forza Italia lacerata dal «no»; si è divisa la minoranza interna al Pd: in sette escono dall'aula per non partecipare al voto (Civati, Fassina, Boccia, Bray, eccetera), in tre si astengono (il lettiano Vaccaro, il bersaniano Galli e Angelo Capodicasa), tutti gli altri approvano la riforma di Renzi. «Ma è l'ultima volta», giura Bersani: «O si modifica in modo sensato l'Italicum o io non voto più sì sulla legge elettorale e di conseguenza sulle riforme», annuncia l'ex segretario e mancato premier, prima di far sapere che ha chiesto e ottenuto udienza al Quirinale per spiegare come e qualmente, a suo avviso, le riforme renziane creino «una situazione insostenibile per la democrazia» e uno «squilibrio dei poteri» terribile. Il capo dello Stato, a quanto è dato sapere, si è limitato ad ascoltare (senza annuire).

Il premier esulta via Twitter: «Ok della Camera alle riforme: un paese più semplice e più giusto». E ringrazia con un «bravi» il ministro Boschi, il relatore Fiano e «tutti i deputati della maggioranza». Intanto la minoranza annuncia futuri sfracelli sulla legge elettorale ma litiga al suo interno: Gianni Cuperlo produce (all'insaputa dei bersaniani) un documento firmato da altri 24 deputati per dire che, nel caso il governo rifiutasse il confronto per cambiare ad uso della minoranza l'Italicum, «ci riserviamo fin d'ora la nostra autonomia di giudizio e di azione». Intanto Pippo Civati punzecchia Pier Luigi Bersani e i suoi penultimatum: «Per loro la battaglia da affrontare è sempre la prossima. Così sarà anche sull'Italicum, poi magari voteranno anche a favore di quello». A Bersani non resta che rilanciare: «Se l'Italicum non cambia, se lo voti Renzi con Verdini». Il premier, lette le dichiarazioni, allarga le braccia: «Come sempre, ci confronteremo con tutti. Ma una cosa è certa: non si ricomincia ogni volta daccapo». Come dire che la legge elettorale non cambierà di una virgola, perché modificarla vorrebbe dire rimandarla al Senato e sottoporla all'impallinamento della minoranza Pd, che lì può avere numeri decisivi. Quanto all'accusa di inciuci con Verdini, Renzi rispedisce al mittente: «L'idea che io faccia patti segreti con pezzi di Forza Italia è ridicola. Ma certo se quel partito implode è fisiologico che una parte possa votare diversamente dal resto». Non pare esattamente un'apertura alle pressioni della minoranza interna: Renzi è piuttosto convinto che i voti per varare l'Italicum (il cui esame, se venisse confermato che le elezioni regionali saranno il 31 maggio, slitterà a giugno) comunque ci saranno. Tanto più se il partito del Cavaliere uscisse malmesso dalla prova elettorale. E Maria Elena Boschi avverte la fronda: «Se chi ha vinto il congresso e le elezioni non può fare diktat e ricatti, non lo può fare nemmeno chi il congresso lo ha perso».

La minoranza Pd però conta molto sui voti segreti, che potrebbero agevolare il passaggio di emendamenti che possano attirare anche i voti di Forza Italia, come quello sul ritorno al premio di coalizione anziché di lista. Il bersaniano Zoggia prevede «almeno 40 o 50 no» nel Pd.

Ma lascia intendere che comunque, se i capilista bloccati saranno confermati, una parte di quelle candidature «spetterà alla minoranza», e la trattativa con Renzi si sposterà sul numero dei seggi sicuri. Il premier, incassato intanto un ampio sì sul nuovo Senato, si concentra sulla prossima partita: la riforma della Rai.

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