Cortocircuito rosso: Cgil vittima dell'articolo 18

Sindacato contro il reintegro di un dipendente. Ma è l'applicazione della legge che difendono

Cortocircuito rosso: Cgil vittima dell'articolo 18

Giuseppe Filannino nella Cgil ci credeva davvero. Tanto da chiamare i colleghi di sindacato ancora «compagni». Poi però nel 2014 quello che doveva essere un movimento in difesa dei lavoratori si è trasformato nel «peggiore dei padroni»: lo hanno calunniato, licenziato «costruendo prove false» e costretto a ricorrere al giudice del lavoro per conservare il posto. I paradossi del sindacato rosso.

Nel luglio di tre anni fa, il 46enne si è visto recapitare la lettera di licenziamento «per giusta causa» dal Caf della Cgil di Bari per cui lavorava. Il capo d'imputazione era serio: aver incassato illecitamente 800 euro per una pratica di successione. A incastrarlo la dichiarazione scritta di una pensionata, la quale affermava di aver consegnato la tangente nelle mani del sindacalista. Peccato che la signora non indicasse né la data, né l'ora e neppure il luogo in cui avrebbe versato il danaro. E infatti un anno dopo il licenziamento, Filannino vince il ricorso contro la «Bari servizi e lavoro Srl», ottenendo il reintegro. Secondo il giudice la contestazione era «priva di alcun elemento di attendibilità».

Che la Cgil licenzi di sana pianta un suo collaboratore senza «elementi di attendibilità» è già una notizia. Ma lo è ancor di più il fatto che - non contenta - abbia pure contestato il reintegro del lavoratore. Insomma: il sindacato da sempre in prima linea per ripristinare l'articolo 18, si scaglia contro l'applicazione dell'articolo 18 su un suo dipendente. Bisogna ammettere che la storia ha i contorni dell'assurdo. Ma tant'è: a dicembre del 2015, il Caf di Bari si appella allora al Tribunale del lavoro per chiedere l'annullamento del reintegro. Il giudice Luigi Pazienza ascolta testimoni e interessati, concludendo che «tutte le dichiarazioni testimoniali sono poco convincenti» e piene di «contraddizioni ed omissioni». Sentenza finale: il licenziamento è illegittimo perché «non c'è prova del fatto contestato». Caso chiuso e Cgil sconfitta dallo Statuto dei lavoratori.

Quello che nemmeno la toga riesce a spiegarsi è come mai la pensionata abbia deciso di denunciare l'estorsione tre anni dopo il fatto. Mistero. In realtà a spingerla a firmare la dichiarazione d'accusa era stato un altro sindacalista, il quale - scrive la toga - «appare evidente non avesse buoni rapporti con il Filannino».

Secondo Filannino si tratterebbe di una ritorsione per le sue denunce sulle attività «poco chiare» del patronato rosso barese (su cui sta indagando la Finanza). Compagni coltelli, insomma. Che pur di combattersi l'un l'altro mandano al diavolo decenni di lotte in difesa dei lavoratori. Alla faccia della coerenza.

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