Politica

Epoche diverse, stesso obiettivo

Ha fatto bene il presidente della Repubblica a suggerire una riflessione sul destino dei giovani di cento anni fa e di quelli di oggi

Epoche diverse, stesso obiettivo

Ha fatto bene il presidente della Repubblica a suggerire una riflessione sul destino dei giovani di cento anni fa e di quelli di oggi: gli uni, i «ragazzi del ’99», chiamati alle armi per impegnarsi nello sforzo conclusivo della Grande Guerra; gli altri, i diciottenni dei nostri giorni, convocati per la prima volta alle urne per esprimere il proprio voto alle prossime elezioni politiche.

Due epoche diverse, ma in fondo uno stesso obiettivo: contribuire in qualche modo e in qualche misura al futuro del paese. Ieri, in tempo di guerra, con armi in pugno. Oggi, in tempo di pace, con la scheda elettorale nell’urna. Ma, a dire il vero, i nuovi diciottenni, i «ragazzi del 1999», vivono in un paese, che, seppur lontano dai campi di battaglia, è divenuto terra di scontro di una lunga e strisciante «guerra ideologica» od anche «post-ideologica», che addomestica, censura o demonizza il passato talora con risvolti addirittura ridicoli. Ma la «memoria corta» e il rifiuto della propria storia, bella o brutta poco importa, sono un ottimale terreno di coltura per la sempre crescente disaffezione politica, l’avventurismo anarcoide, il populismo generalizzato. I giovani diciottenni di oggi, secondo l’auspicio del capo dello Stato, saranno con il loro voto i «protagonisti della vita democratica». Ma, bisogna aggiungere, lo saranno nella misura in cui essi avranno l’orgoglio di sentirsi, oltre che cittadini del mondo o dell’Europa unita, anche, e prima di tutto, cittadini italiani. Cittadini, cioè, di quella realtà statuale che i loro antenati di un secolo fa, i famosi «ragazzi del ’99» contribuirono, con tanti sacrifici, a creare.

Il richiamo, sia pure incidentale e privo di retorica, alla Grande Guerra è, forse anche al di là delle intenzioni del presidente della Repubblica, un richiamo importante al ruolo della memoria storica. Perché fu proprio quell’evento, al netto dei sacrifici e dei costi in termini di vite umane, ad essere non soltanto l’atto conclusivo del lungo processo risorgimentale – la «quarta guerra d’indipendenza», come affermavano la retorica e la storiografia nazionalista – ma anche un qualche cosa di più importante, profondo e duraturo di quanto non fossero gli ampliamenti territoriali. La Grande Guerra, infatti, fu lo strumento grazie al quale ebbe modo di rafforzarsi l’identità nazionale e poté svilupparsi il sentimento di appartenenza alla comunità statuale. Troppo spesso, oggi, nel corso delle celebrazioni ufficiali della Grande Guerra vengono sottolineati aspetti negativi e lati oscuri del conflitto e vengono rammentate le conseguenze che esso comportò per la successiva storia nazionale.

È giusto che ciò venga ricordato. La Grande Guerra fu, davvero, il «suicidio dell’Europa» e segnò la crisi, in qualche caso la fine, dei regimi liberali. Ma, riconosciuto ciò, va pur detto che l’autocompiacimento masochistico – il «caporettismo» che ha trasformato una sconfitta militare in simbolo del disfacimento etico-politico del paese – è un male ricorrente alle origini della scarsa affezione degli italiani per le istituzioni. E, quindi, per estensione, della loro lontananza dalla politica. I «ragazzi del 1999» potranno davvero dare un contributo al futuro del paese conoscendo e riconoscendo quello che fecero i loro antenati di un secolo prima, i «ragazzi del 1899». Con buona pace del «caporettismo».

In tutte le sue manifestazioni.

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