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Ex Ilva, un magistrato ha mandato a spasso 3.500 operai di Taranto

Arcelor chiede la cassa integrazione dopo lo stop dell'Altoforno 2 deciso dal giudice

Ex Ilva, un magistrato ha mandato a spasso 3.500 operai di Taranto

L'Ilva è un precipizio. Ogni giorno crolla uno dei pilastri che sosteneva le illusioni di un salvataggio del gigante italiano dell'acciaio. Dopo la sentenza choc del giudice di Taranto Francesco Maccagnano, arriva la mazzata della cassa integrazione straordinaria a zero ore per 3.500 operai. Nel linguaggio sindacale è la tipica situazione indicata come «l'anticamera del licenziamento».

Sembra passato un secolo da quando il governo diceva che lo scudo penale era solo una scusa per ArcelorMittal per chiudere baracca e andarsene o ridurre la fabbrica ai minimi termini. Da allora, una gestione scellerata della vertenza ha dato all'azienda franco-indiana un intero arsenale di pretesti.

La senatrice che suggerisce di allevare cozze al posto dell'ex Ilva, il governatore pugliese che cambia idea sulla chiusura a ogni folata di vento, il governo che si rimangia lo scudo penale, i commissari che hanno gestito l'azienda con la timidezza di chi vuole soprattutto evitare pericolose responsabilità. E ora una magistratura arrembante che pare fare a gara a chi chiude prima la fabbrica: il giudice ha deciso per la chiusura dell'altoforno 2, considerato pericoloso dopo l'ultimo incidente mortale a un operaio, scavalcando il parere opposto della procura, che pure si era distinta per attivismo «ambientalista».

La decisione ha sorpreso gli attori della vertenza perché pareva che alla fine, nel momento d'emergenza per i posti di lavoro determinati dal dietrofront di ArcelorMittal, anche il sistema giustizia stesse lavorando per evitare la perdita dell'azienda strategica e degli oltre diecimila posti di lavoro. Il Giornale per primo aveva segnalato il rischio di un conflitto tra toghe: quelle di Milano impegnate ad accusare ArcelorMittal in caso di «tentata fuga» e quelle di Taranto ostinatamente in azione con atti che avvicinano il crac finale della più grande fabbrica del Sud.

Ma a cercare responsabilità non si finisce più. Ieri Marco Bentivogli, il segretario generale della Fim Cisl, ha ricordato un dettaglio che rende ancor più fosco il quadro. Nel 2015, quando si è verificato l'incidente che ha tolto la vita all'operaio Alessandro Morricella, al timone dell'Ilva c'erano i commissari nominati dal governo e non la «malvagia» multinazionale subentrata da pochi mesi. La magistratura sequestrando l'altoforno aveva prescritto lavori di messa in sicurezza la cui mancata esecuzione è alla base della decisione del giudice Maccagnano che ora ha portato a lasciare a casa 3.500 operai. «Perché i commissari non hanno fatto fare quei lavori in quattro anni?», chiede ora polemicamente Bentivogli e rivela un dettaglio sconcertante: «Il bonifico da parte di Ilva in Amministrazione straordinaria alla Paul Wurth, società specializzata nel realizzare questo intervento, è datato 20 novembre 2019, quindici giorni». Quattro anni lasciati passare senza agire, altri sedici mesi di proroga e il pagamento dei lavoro meno di un mese prima la pronuncia del tribunale sull'altoforno che può rivelarsi esiziale per l'ex Ilva.

Oggi sindacati e azienda sono nuovamente convocati al ministero per lo Sviluppo economico che insiste sul proprio piano per uscire dalla crisi, con un nuovo investimento pubblico. Ma dopo gli ultimi sviluppi c'è scetticismo: lo stop ad Afo 2 leva altre responsabilità ad ArcelorMittal. E la gestione commissariale, dicono dalla Fim Cisl dovrebbe far riflettere chi invoca la nazionalizzazione.

E pensare che Di Maio aveva detto che alla magistratura ci pensava lui.

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