Politica

Alla fine Matteo fa peggio di Bersani

M eglio Bersani di Renzi. Uno dice: per forza, più facile da battere. Per adesso non si sa: Bersani si è sottoposto, con il suo programma e il suo giaguaro, ad elezioni a suffragio universale. Si è fatto misurare da un voto popolare dov'era in palio esattamente quello per cui correva. L'esperienza dice che, pur avendo vinto ufficialmente per lo 0,37 per cento, in realtà il Pd ha goduto dell'abilità nella pesca di frodo dei compagni. Ma almeno Bersani si è esposto personalmente, non ha mandato avanti qualcun altro tipo De Luca, ha tirato colpi, li ha presi, con quella faccia lì e la sua pompa di benzina del papà e le bambole da pettinare.

Renzi invece ha preso tutto, ma proprio tutto, senza mai correre la gara giusta, e ha portato a casa la bambolina premio senza mai competere, senza esporsi al fuoco del suffragio universale. La bambolina, per intendersi, era l'Italia.

Anche adesso. Se perde, come merita, la colpa sarà di De Luca...

Il fatto è che Renzi ha raccolto la pessima eredità della tradizione comunista toscana, furbetta e autarchica, buonista e senza senso nazionale. Ha sconfitto il comunismo emiliano, che peraltro non è mai stato egemone, rappresentato da Bersani. Troppo guareschiano, al lambrusco e culatello. Contro Secchia e le volanti rosse, alla fine ha vinto Peppone Bottazzi, che sembra lo zio di Bersani.

Al tempo del Pci, la Toscana, in contrapposizione all'Emilia, rappresentava l'ala massimalista del partito. Bologna allevava schiere di amministratori locali e quadri operai destinati a divenire piccoli imprenditori. Il regno vero delle cooperative rosse: grande organizzazione e disponibilità finanziarie. Firenze rimaneva, invece, impigliata in quel misto di tradizione anarchica e di chiusura aristocratica, in un lembo di terra benedetto dalla natura e dall'arte.

Più o meno irrilevante la funzione di entrambi gli apparati nella grande strategia comunista. Le rispettive organizzazioni territoriali erano state in grado di esprimere solo dirigenti locali. Ma mentre l'Emilia poteva vantare capi come Lama, prestigioso segretario della Cgil, Fanti o intellettuali alla Zangheri, la Toscana rimaneva una terra eccentrica e, per molti versi, autarchica. Case del popolo che raccoglievano il contado. Firenze che si affidava alle cure di sindaci di sinistra, come il siciliano La Pira, santo dei poveri e tradizionalista in dottrina, fierissimo avversario di divorzio e aborto. Su cui Renzi ha scritto la tesi di laurea, che deve aver gettato via dacché teorizza le unioni gay. In questo, Matteo si sta dimostrando profondamente cattocomunista del nuovo tipo. Senza slanci escatologici, ma capace di distribuire le figurine di santi e di compagni nello stesso giro di carte.

Il conflitto che divide Matteo Renzi e Pierluigi Bersani non deve, quindi, sorprendere. Una differenza geo-antropologica. Al massimalismo del primo, colorato di fiabe collodiane, risponde la piatta concretezza del secondo. E qui sta la simpatia umana e il limite di Bersani: alla fine la cultura e l'istinto della sinistra restano ideologici.

Nel conflitto tra queste due maschere della commedia italiana, il bastone del comando è finito al giovane sindaco di una città che, a differenza di Bologna, ha segnato culturalmente la storia d'Italia. Quel rinascimento mediceo, che lo stesso Renzi, non a caso, evoca continuamente. Ma quanto a concretezza e visione, zero. Manca quello sforzo continuo – da Gramsci in poi – di costruire sullo scontro di classe, una visione nazionale che si potesse far carico dei problemi irrisolti della storia del Risorgimento. E per la cui definizione tanto i dirigenti emiliani, quanto quelli toscani, non erano in grado di offrire un supporto adeguato. Il che spiega come mai le più forti organizzazioni territoriali del partito non fossero in grado di esprimere leader nazionali all'altezza di quel compito. Ciò che è toccato invece a sardi e piemontesi.

In questo Matteo Renzi ha poco a vedere con la tradizione più nobile del Pci. Prevale, in lui, un misto di «classismo» e di «buonismo» fuso in un furbesco machiavellismo, senza lo spirito nazionale di Machiavelli. Diciamo che però ha preso da Togliatti l'essenziale. L'arte della morale di circostanza. La doppiezza del tipo: con De Luca e per la legalità. Ma come si fa? Meglio Bersani. Non perché è più facile da battere.

Ma per l'Italia.

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