Un'inchiesta portata avanti per quattro anni con risorse imponenti, e che ha investito la più grande azienda di Stato del nostro paese travolgendone il vertice e impattando negativamente sul suo ruolo nel mondo e sui mercati, si sgretola nei cinque minuti che servono ieri al giudice Giulia Turri per leggere la sentenza. Eni non corruppe nessuno per fare business in Algeria, e tanto meno lo fece Paolo Scaroni, l'uomo che all'epoca sedeva alla testa del colosso energetico nazionale. Per Scaroni, accusato di corruzione internazionale, la Procura di Milano aveva chiesto la condanna a sei anni e mezzo di carcere. Il tribunale lo assolve con formula piena da entrambi i capi d'accusa. E insieme a lui assolve Eni, che era stata portata anch'essa sul banco degli imputati.
Del mastodontico lavoro dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro sopravvive solo la condanna di Saipem e di alcuni suoi manager, oltre che dei mediatori algerini dell'affare. Che del modus operandi di Saipem e dei 198 milioni di presunte tangenti (peraltro regolarmente messe a bilancio da Saipem e come intermediazioni), Eni e il suo capo non sapessero assolutamente niente era venuto invano a spiegarlo sia durante le indagini che in aula il successore di Scaroni alla testa del cane a sei zampe, Claudio Descalzi: «Paolo Scaroni non si è mai occupato di commesse Saipem e non avrebbe mai potuto esercitare poteri sulla società partecipata perché c'è una filiera che impedisce che ci sia una ingerenza». E d'altronde la prima volta che aveva provato a portare a processo Scaroni e Eni per questa vicenda, il pm De Pasquale - oggi procuratore aggiunto - era andato a sbattere contro una sentenza del giudice preliminare secondo cui «gli elementi in atti non sono sufficienti per ritenere provat o provabile una qualche accordo corruttivo di Paolo Scaroni e quindi di Eni» negli affari tra Saipem e Algeria. La Procura aveva insistito, e alla fine era riuscita a portare l'azienda e il suo manager sotto processo.
Non è stato un processo facile, per l'accusa: anche perché nel frattempo il presunto corrotto, il ministro Chekib Khelil, era stato assolto in Algeria; e perché dalla analisi delle procedure dei due affari sotto tiro - sette appalti vinti da Saipem, e l'acquisizione della società First Calgary Petroleum (Fcp) proprietaria di un fondo in Algeria - non erano emerse stranezze e favoritismi. Così nella sua requisitoria la Procura aveva dovuto cambiare tiro, indicando come destinatario delle tangenti non più il ministro ma un «bacino di raccolta indiviso» e come contropartita non gli appalti ma una sorta di «protezione globale».
Niente da fare, neanche questa nuova tesi riesce a fare breccia. Appena il giudice Turri (non sospettabile di eccessi di buonismo, è la stessa che condannò Berlusconi per il caso Ruby) inizia a leggere il dispositivo, la faccia del pm De Pasquale si fa improvvisamente scura. E poco servono a rasserenarla le condanne per il troncone Saipem, tra cui quella dell'ex ad Pietro Tali, che si vede infliggere 4 anni e nove mesi. La stessa pena che tocca al «pentito» di questa vicenda, Pietro Varone, ex direttore operativo Saipem: punto terminale di spaccature e faide interne al gruppo petrolifero che hanno condizionato indagini e processo.
Intanto Eni festeggia: l'azienda, dice un comunicato, «è lieta che il processo abbia avvalorato gli esiti delle verifiche promosse dalla società e realizzate da soggetti terzi indipendenti che escludevano già all'epoca qualsiasi coinvolgimento di Eni».
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