Il governo uccide la crescita? Fa più paura il No alle riforme

Il paradosso di mercati e poteri forti: temono la sconfitta al referendum, non i dati economici già negativi

Il governo uccide la crescita? Fa più paura il No alle riforme

Nei giorni scorsi grandi quotidiani internazionali come il New York Times, il Wall Street Journal e il Financial Times si sono dilettati nello stesso esercizio del Centro studi di Confindustria: preconizzare l'invasione delle cavallette in caso di bocciatura del referendum costituzionale. L'Italia, secondo codesti osservatori, patirebbe le conseguenze di una vera e propria Brexit se Matteo Renzi abbandonasse Palazzo Chigi, come se tra instabilità politica e crescita economica vi fosse una relazione causale, un legame indissolubile. Ieri anche l'Economist si è accodato: «Instabilità economica e finanziaria in caso di vittoria del No»

Si tratta di un'affermazione falsa per due motivi. In primo luogo, non si può paragonare l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea alla sopravvivenza di un governo di una nazione che a quei confini comunitari comunque rimarrà ancorata. Londra, inoltre, ancora non è uscita definitivamente e la sua economia veleggia spedita con le vendite al dettaglio che a luglio hanno fatto boom (+5,9%), la Borsa che marcia verso nuovi record e l'agenzia Moody's che ha rivisto al rialzo le previsioni di crescita. Altro che recessione! E qui siamo alla seconda falsità propalata dai profeti di sventura: l'Italia è già incanalata verso un sentiero declinante. La crescita zero del secondo trimestre porta a +0,6% il dato acquisito dell'anno sperando che non vi siano arretramenti. Se poi, come ha fatto Renato Brunetta (Fi), ci avventuriamo nel territorio del Pil nominale (Pil reale + inflazione), scopriamo che quello 0,6% è uno 0,5% perché siamo in deflazione e quindi siamo ben lontani da quel 2,2% (1,2% di crescita e 1% di inflazione) che il governo aveva stimato nel Def ad aprile. Il fatto che alla manovra servano almeno 30 miliardi per far quadrare i conti non è perciò una sorpresa. Sorprende, invece, come il premier Matteo Renzi e il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, abbiano potuto far giungere la situazione fino a questo punto.

Il debito pubblico a giugno ha toccato un nuovo record a 2.248,8 miliardi, mentre la produzione industriale nello stesso mese è arretrata dell'1% su base annua. Sono le due facce di una stessa medaglia: da una parte un settore pubblico che continua a essere squilibrato spendendo più di quello che incassa, dall'altro un settore privato che non ha più benzina nel motore. È lo specchio di un Paese nel quale i consumi stanno decelerando e nel quale le vendite al dettaglio esauriscono le scorte. Quando il commercio internazionale comincerà veramente a risentire della Brexit l'Italia perderà l'ultimo polmone funzionante, cioè l'export. Come non funziona un'industria che sopporta una tassazione del 68% degli introiti così non funziona un settore edile (-0,5% nel secondo trimestre) su cui pesano ancora circa 20 miliardi di Imu e Tasi. Il risultato non può che essere un settore bancario gravato da 360 miliardi di crediti dubbi sui quali la normativa comunitaria impedisce di intervenire a livello sistemico. Colpa anche del governo Renzi che non ha usato la flessibilità concessa da Bruxelles per correggere tutte queste storture ma per fare nuovo deficit spendendo decine di miliardi per il bonus da 80 euro o per decontribuzioni che hanno drogato inutilmente il mercato del lavoro, lasciando il tasso di disoccupazione (11,6%) comunque al di sopra della media Ue. Si può, quindi, mettere in relazione l'esito del referendum con un quadro economico già di per sé tendente allo sfacelo? Certo che no. Lo conferma anche la Cgia di Mestre ricordando che il mancato pagamento dei debiti da parte della pubblica amministrazione ammonta a ben 65 miliardi di euro. I tempi medi di pagamento si attestano a 131 giorni, dato più alto di tutta l'Ue, alla faccia della direttiva europea e della procedura di infrazione aperta da anni. Le imprese sono un doppio bancomat per lo Stato: non solo con le tasse, ma anche ritardando il versamento di ciò che è loro dovuto.

«Non vorremmo - afferma Paolo Zabeo dell'Ufficio studi Cgia - che per rinnovare il contratto dei dipendenti pubblici, per ritoccare le pensioni e per far quadrare i conti pubblici dopo la frenata del Pil si decidesse, tra le altre cose, di ritardare ulteriormente i pagamenti». Un Senato fatto di sindaci e consiglieri regionali, Regioni con meno poteri e abolizione del Cnel non hanno niente a che fare con questo sfacelo anche se molti vorrebbero farlo credere.

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