N on è (almeno per il momento) un altro caso Della Valle. Gli ambienti renziani parlano di screzi minimi e non politici, concentrati sul merito. Imprenditori e manager, si sa, non sono forti in diplomazia. Ma potrebbe esserci dell'altro dietro l'uscita di Andrea Guerra, ex amministratore delegato di Luxottica e consigliere strategico del premier Matteo Renzi. Le parole che ha speso ai microfoni di Mix24 di Giovanni Minoli sanno molto di divorzio politico. Una critica diretta a quella che, allo stato, è l'unica vera riforma varata dal governo di centrosinistra. «Penso che dentro al Jobs Act ci siano tante cose buone, ma credo che manchi ancora qualcosa di fondamentale che è la protezione del lavoratore nel lungo periodo», ha spiegato. Parole pesanti, visto che vengono dal consigliere di Renzi per la politica industriale. E che il Jobs Act non è un frutto del ministero del Lavoro, né è stato contaminato da influenze esterne, ad esempio quelle dei sindacati. Ideato e sviluppato tutto dentro le stanze di Palazzo Chigi. Dovrebbe fare felice proprio il mondo della produzione e dell'industria, ma proprio Guerra si fa interprete dei dubbi che, in realtà, molti addetti al settore condividono. Le tesi di Guerra ricordano, ad esempio, quelle di alcuni sindacati. «La flessibilità ce lo chiede il mondo, ma è fondamentale la qualificazione e riqualificazione». Non sono parole vuote. Una maggiore libertà di licenziamento significa in prospettiva avere un sistema economico in grado di riassorbire chi perde un lavoro. Niente di più lontano dalla nostra mentalità latina, riassumere un 50enne. Ma il governo dovrebbe farsi carico quanto meno della formazione dei licenziati.
Merito a parte, una chiave di lettura del mal di pancia di Guerra l'ha fornita lui stesso durante la fortunata trasmissione radiofonica. «La linea Marchionne sulle relazioni industriali va bene secondo lei? Non è la mia». Due le chiavi di lettura, appunto, che ieri prevalevano nel governo. Una nel merito. Guerra, avrebbe quindi fatto proprie le istanze del mondo del lavoro, criticando anche il numero uno di Fca. Una conversione al verbo della Cgil e della Fiom, che però convince poco. Gli unici rimasti a criticare Marchionne per come ha gestito le relazioni industriali, cioè i rapporti con i lavoratori e le loro rappresentanze, sono appunto quelli di Corso d'Italia.
Resta in piedi, quindi, solo l'altra chiave di lettura. Il clima idilliaco tra il premier e l'uomo che ha trasformato la Fiat non è piaciuto a tanti. Dopo la visita di Renzi a Torino, Marchionne ha promosso senza riserve il Presidente del Consiglio. «I miei rapporti con Renzi sono cambiati perché l'ho conosciuto. Prima non lo conoscevo. Lo giudico sul semplice fatto che sta facendo e ha il coraggio di affrontare il cambiamento e portarlo avanti. Renzi invece sta facendo. La disoccupazione cala, il Pil sembra stia salendo, lo spread è sceso. Le prospettive sono decenti, io lo lascerei lavorare. Poi quando non ci sta più bene vedremo». Apertura di credito ancora più evidente del premier al manager. «Sono gasatissimo dai progetti di Sergio Marchionne L'industria che vince non è quella della lagna ma quella dell'innovazione e della curiosità».
Ieri l'ex manager Guerra, uomo di fiducia del premier, si è mostrato molto poco gasato dai metodi del collega italo canadese. Per proprietà transitiva, pollice verso anche su Renzi e le sue valutazioni più che positive a proposito di Fca. Dalla Leopolda, che ha visto Guerra protagonista fin dalla prima edizione, a un giudizio che, se non è da Fiom, è quasi da «gufo». Assomiglia a quelli della minoranza del Partito democratico. Se cosi fosse la sinistra Pd si ritroverebbe all'improvviso un uomo nella stanza dei bottoni.
di Antonio Signorini
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