Una notizia folgorante è stata pubblicata ieri dal Secolo XIX , quotidiano di Genova. Ecco il titolo: «L'esercito degli Stati Uniti riabilita la parola negro». Il testo spiega che questo termine è più gradito dai soldati di pelle scura di quelli eufemistici entrati in uso da qualche decennio in omaggio al politicamente corretto. Insomma, stando alla corrispondenza da Washington evidenziata dal giornale ligure, i militari negri preferiscono di gran lunga essere chiamati negri che non afro-americani, con una forzatura poco consona al linguaggio corrente degli statunitensi. I quali, per quieto vivere, si sono adattati al cambiamento del lessico familiare per non contravvenire alla moda imposta dai liberal, coloro che dettano legge nei costumi Usa in costante evoluzione o involuzione, cioè da gente che attribuisce maggior valore alle parole che al contenuto delle medesime.
Tale moda, come tutte le mode, è stata importata anche in Italia, sempre pronta a giudicare stolti gli yankees, ma altrettanto rapida nell'imitarne i vezzi, financo le mutazioni linguistiche. Cosicché anche dalle nostre parti, da almeno un paio di lustri, chi osi pronunciare o scrivere il vocabolo «negro» viene considerato un buzzurro, peggio, uno sporco razzista, nonostante la semantica di tale vocabolo non sia negativa né, tantomeno, offensiva. Leggere la Treccani per verificare la fondatezza della nostra asserzione.
Non importa. I soloni del nostro sistema mediatico, compresi i rappresentanti autorevoli (si fa per dire) dell'Ordine dei giornalisti, essendosi abbeverati alla fonte sapienziale degli Usa, hanno decretato che il sostantivo/aggettivo negro va bandito dal dizionario del bravo cronista. Chi eventualmente ne faccia ricorso nella stesura di un articolo, o di un titolo, sia sottoposto a procedimento disciplinare, con tutti i rischi che ciò comporta: sospensione o addirittura radiazione dall'elenco professionale. Giuro, è così. Parlo per esperienza. Mi pare nel 2010, commentando i fatti di Rosarno (Calabria), ovvero lo sfruttamento di extracomunitari, costretti a vivere e a lavorare in condizioni disumane, ebbi l'ardire di affermare che i «negri avevano ragione» di protestare. Non l'avessi mai fatto. Venni non solo pubblicamente contestato dai raffinati pennini dei giornaloni di lusso, ma denunciato alla corporazione non perché avessi difeso i povericristi di colore - mancava solo questo - ma perché avevo definito negri le vittime dei soprusi.
Vi rendete conto? Fui perseguito dall'Ordine, che per tre anni e più indagò per scoprire se avessi violato il codice deontologico. Roba da matti. Alcuni mesi orsono ricevetti la «sentenza di assoluzione» motivata dal fatto che il mio pezzo non era diffamatorio, bensì addirittura affettuoso nei confronti dei suddetti negri. Rimane tuttavia un problema: un redattore che non voglia avere grane, non può dare del negro a un negro. Lo stesso vale per il sostantivo zingaro. Vietato. Se ti sfugge dalla penna sono cavoli tuoi. Finisci sotto processo. Mi domando perché Iva Zanicchi sia abilitata a cantare: «... prendi questa mano, zingara...». E perché Nicola Di Bari abbia facoltà di gorgheggiare: «... il cuore è uno zingaro e va...». Mentre uno sfigato di giornalista a 2000 euro il mese, se verga un pezzo in cui cita gli zingari, debba essere punito dagli zelanti tutori del disordine che raggruppa i giornalisti.
È difficile comprendere il senso di tutto questo: la guerra delle parole produce effetti grotteschi. Specialmente ora che gli americani hanno sdoganato, dopo averlo messo all'indice, il termine «negro» riconoscendo che si tratta di una parola innocua, per nulla spregiativa e sicuramente meno ipocrita e fasulla di afro-americano o nero o uomo di colore che, siamo sinceri, sono tentativi patetici di nascondere la vera natura e il significato autentico dell'idioma genuino.
Ciò che va criticato non è il modo di esprimere un concetto, ma lo spirito che emana dal concetto stesso. Con buona pace dei linguisti dilettanti e ignoranti che stanno in trincea nella speranza di colpire chi parla come mangia, loro che mangiano senza scrivere perché non ne sono capaci.
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