«I russi? Sono dei bulli La minaccia globale è la Cina imperialista»

Il presidente della commissione Esteri inglese "Europa debole con Pechino, l'Italia di più"

«I russi? Sono dei bulli  La minaccia globale è la Cina imperialista»

Londra. «La Russia è uno stato fallito, è un Paese fantastico che è stato derubato da un'élite mafiosa che ne ha assunto il controllo durante la guida di Putin. Non è solo il fatto che ci sono troppo pochi ospedali o strade o treni, anche le forze armate sono state derubate, l'intelligence è stata eviscerata dalla corruzione. La Cina, invece, è una cosa diversa, è uno stato vero e proprio, e rappresenta una minaccia strategica». Le parole di Tom Tugendhat, ex tenente colonnello dell'esercito, parlamentare conservatore e presidente della Commissione per gli Affari Esteri della Camera dei Comuni, non potrebbero essere più chiare. Se Mosca è un «bullo che fa un sacco di rumore ma in realtà a nessuno importa veramente cosa pensa», di contro la Cina rappresenta l'avversario contro cui il Regno Unito e i suoi alleati si devono misurare. La differenza tra le due minacce è l'obiettivo finale: «La Russia non sta cercando di sovvertire l'attuale sistema internazionale basato su regole condivise, di distruggere le organizzazioni e i trattati internazionali che ha sottoscritto. Magari li ignora, non è cooperativa, ma non li sta distruggendo. La Cina è differente».

La tensione fra Pechino, Londra e Washington non è mai stata così alta come negli ultimi mesi, culminata con la nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong e il bando di Huawei dal 5G britannico. «É esattamente quello che chiedevamo» conferma Tugendhat, che è anche uno dei fondatori e animatori del China Research Group, un gruppo parlamentare che promuove lo studio e l'analisi del Regno di Mezzo. Il prossimo dossier è quello nucleare, la cinese CGN è alla guida del consorzio per la costruzione della centrale di Bradwell, il progetto però differisce da altri che la francese EDF sta sviluppando a Hinckley e Sizewell.

«É un approccio strano, una pessima idea» innanzitutto economica, che sarà da approfondire. Molteplici sono i fronti che Pechino ha aperto nell'ultimo periodo: Australia, Paesi del sud est asiatico, Regno Unito, Stati Uniti. La pandemia globale potrebbe averle instillato un senso di sicurezza, il mondo ha altro cui pensare, tuttavia «penso ci sia la possibilità che all'interno della Cina ci sia più instabilità di quanto sappiamo» e che il governo stia cercando di rafforzare l'unità nazionale facendo leva su minacce esterne. «É quello che la Russia ha fatto con l'Ucraina».

Gli indizi sono numerosi, a cominciare dal livello di violenza che il presidente Xi sta usando contro il suo popolo, da una curva demografica decrescente, l'abbandono per la prima volta dagli anni '90 del target di crescita annua del 6%, i problemi ambientali nel nord del Paese, la desertificazione e la salinizzazione delle risaie del sudest, «giganteschi problemi interni difficili da risolvere».

C'è stato un tempo non troppo lontano in cui il governo Cameron parlava di età dell'oro delle relazioni sino-britanniche, un approccio «che valeva la pena tentare. Il precedente governo non può essere rimproverato per il fatto che la situazione sia poi evoluta diversamente da quanto auspicato». Un'era fa, quando Londra faceva ancora parte dell'Ue. Tugendhat non crede la Brexit abbia indebolito la risposta politica britannica alla Cina: semplicemente «le posizioni di Germania e Italia sono molto diverse rispetto a quelle di Francia e Repubblica Ceca. Non sono comparabili, non esiste una politica estera comune. Ci sono 27 politiche differenti». E quella dell'Italia è particolarmente prona verso Pechino.

La comunità internazionale dovrebbe cercare una risposta uniforme all'aggressività cinese, a cominciare dalla questione degli Uiguri.

Le evidenze raccolte, gli attivisti, gli avvocati, tutto spinge verso la definizione di genocidio, «dovremmo cominciare a chiamarlo per quello che è, troppi Paesi si stanno tirando indietro».

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