RomaUn adeguamento delle pensioni che ha l'amaro sapore di una beffa. Dal primo gennaio del prossimo anno, infatti, si abbasseranno i coefficienti di trasformazione, ossia i parametri che consentono di calcolare l'importo annuo lordo di un trattamento pensionistico in base al montante contributivo versato e all'età di uscita dal lavoro. Il decreto emanato lo scorso 22 giugno dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha infatti recepito l'aggiornamento previsto dalla legge. È probabile, rileva Il Sole 24 Ore , che non saranno pochi coloro che decideranno di approfittare della finestra di novembre (e di dicembre per i pubblici dipendenti) per non perdere qualche centinaio di euro.
Secondo una simulazione, un lavoratore di 67 anni che andrà in pensione quest'anno con 200mila euro di contributi versati riceverebbe 11.652 euro annui lordi. Da gennaio ne otterrebbe invece 11.400. Tutto questo perché il coefficiente di trasformazione passerà dal 5,826% al 5,7 per cento. È l'effetto del combinato disposto delle riforme che si sono sovrapposte negli ultimi anni. Prima la riforma Damiano del 2007 ha imposto la revisione al ribasso dei coefficienti a partire dal 2009, in quanto erano rimasti invariati sin dalla legge Dini del 1996. Poi, la manovra estiva del 2010 ne ha imposto l'aggiornamento su base triennale tenendo conto dell'incremento della speranza di vita. Dal 2019, poi, la revisione si effettuerà ogni due anni. Le perdite saranno tutto sommato sopportabili in quanto in questi anni si stanno ritirando dal lavoro persone nate tra la seconda metà degli anni '40 e la prima metà degli anni '50 che in molti casi hanno accumulato più di 18 anni di contributi prima del 1995 conservando, dunque, l'impostazione retributiva (cioè commisurata allo stipendio e non a quanto versato, ndr ) nel proprio trattamento.
Tuttavia, conclude Il Sole 24 Ore , se si confrontano i coefficienti della riforma Dini, si scopre che fino a 6 anni fa il coefficiente di trasformazione per chi andava in pensione a 65 anni (6,136%) è praticamente lo stesso per chi si ritirerà a 69 anni (6,135%) nel 2016. Insomma, a parità di montante, si lavora quattro anni in più per percepire lo stesso trattamento. E questo progressivo adeguamento alla speranza di vita finirà inevitabilmente con il penalizzare le generazioni nate dagli anni '60 in poi che sono «obbligate» a ritirarsi il più tardi possibile per mettere assieme un trattamento dignitoso.
Anche l'aggiustamento al quale sta lavorando il governo potrebbe avere risvolti pratici negativi. Consentire a chi ha raggiunto quota 100 tra età ed anzianità contributiva di ritirarsi a partire dai 62 anni prevede infatti una serie di penalizzazioni all'assegno. La revisione sempre più stringente dei coefficienti di trasformazione e la tendenza ad azzerarsi del tasso di rivalutazione del montante contributivo (sia per il basso livello della crescita economica sia per quello minimo dei tassi di interesse) pongono un enigma di difficile soluzione. Flessibilizzare l'uscita dal lavoro significherebbe restituire assegni inferiori anche al 60% dell'ultimo reddito. E soprattutto con un aggravio per le casse dell'Inps e degli altri enti.
In ogni caso, si tratta di un argomento che l'esecutivo affronterà alla ripresa dei lavori parlamentari in quanto una delle soluzioni prospettate (il ricalcolo con il sistema contributivo degli assegni, ndr ) è sgraditissima alla sinistra del Pd e
ai sindacati. L'unica certezza, per ora, è che si dovrà solo lavorare di più per avere le stesse pensioni di una volta.
La differenza annua per chi, a 67 anni, va in pensione nel 2015 e non nel 2016 con 200mila euro versati
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