La lezione di Londra alla politica

La lezione di Londra alla politica

S econdo Simon Kuper, firma del «Financial Times», la Brexit è un regalo che il Regno Unito ha fatto al mondo. Un regalo perchè, mese dopo mese, anno dopo anno, ha finito per rappresentare una antologia di tutti i possibili errori di una classe politica. Un esempio a cui gli altri Paesi devono guardare, anche se solo in negativo. La prima trappola in cui i britannici sono caduti è scattata già alla partenza: l'aver ridotto a una scelta binaria (sì-no) la questione dei futuri rapporti con i principali partner, si è trasformata in una camicia di forza da cui Londra non è più riuscita a liberarsi. Il dualismo «like-don't like» può andare bene per Facebook, per le menti semplici di molti grillini o per quelle manipolatorie della Casaleggio Associati. Non per le complessità di una democrazia avanzata. Che tipo di norme avrebbero regolato i rapporti tra con la Ue? Meglio il modello canadese, quello norvegese, o le disposizioni dell'Organizzazione mondiale del commercio? Nessuno a Londra ci aveva pensato prima del referendum, le tante fazioni in campo non si sono messe d'accordo dopo. Così, ora è sempre più probabile un'uscita «hard», che solo una minoranza vuole. Gran parte della responsabilità, non c'è dubbio, è dei politici che per convenienza e tatticismo hanno voluto e accompagnato l'addio britannico. Una scelta di fondo, più che legittima, a cui i cittadini britannici sono stati chiamati (che tipo di futuro voglio per il mio Paese?) è stata usata come puro espediente di potere. Cameron ha promesso, bluffando, il referendum per conservare la leadership del partito; ancora meno comprensibile, se non nell'ottica dell'ambizione personale, la scelta di Theresa May: remainer, ha deciso di saltare sul cavallo della Brexit dopo avere individuato nella scelta un varco per coronare il sogno della premiership. È l'altro tema posto dalla tragicommedia che si sta svolgendo lungo le rive del Tamigi: l'inadeguatezza e la mancanza di credibilità di una intera classe politica. Aggrappata alla poltrona fino a sfiorare il grottesco, da tempo prigioniera di una situazione senza vie d'uscita, la May commossa di ieri ha posto con chiarezza un altro problema: «In una democrazia, se si dà al popolo una scelta, poi si ha il dovere di realizzare quello che è stato deciso». Vero: a un errore non si rimedia con un altro errore. Il non sapere scegliere, il trascinare i piedi senza assumersi responsabilità, fossero solo quelle delle dimissioni, ha avuto un effetto solo, quello di mantenere sulla cresta dell'onda l'ineffabile Nigel Farage, che per sè ha saputo ritagliare l'esorbitante privilegio dell'irresponsabilità: dopo aver contribuito alla Brexit, ha evitato di assumere il peso della decisione, ritirandosi (per poco) dalla politica ed evitando il doloroso impatto con la realtà. Sullo sfondo resta la questione che sta di fronte a tutti i sovranisti, siano essi inglesi o italiani. Leader come il già citato Farage, Matteo Salvini o Giorgia Meloni parlano di sovranità con accenti nostalgicamente ottocenteschi, sognando (o facendo credere di sognare) il ritorno a un passato fatto di dogane, dazi, protezionismo e monete nazionali. All'apparenza sono tutti inconsapevoli delle complesse interrelazioni che legano ormai i singoli Paesi.

Gli economisti parlano di interdipendenze economiche e aree monetarie, di catene globali del valore che contribuiscono a mantenere il nostro, sia pur relativo, benessere. Smontare il giocattolo può sembrare avventuroso e divertente. L'importante è ricordare che ha i suoi rischi.

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