Macché Keynes, sono come la Spagna del '600

Macché Keynes, sono come la Spagna del '600

Fra il 1647 e il 1662 il Regno di Spagna fu costretto a dichiarare ben quattro volte bancarotta perché non in grado di onorare i propri debiti. La Guerra dei Trent'anni, iniziata nel 1618, aveva talmente corroso le finanze della superpotenza europea creata da Carlo V che tutti i metalli preziosi, che dall'America Latina giungevano nel porto di Siviglia, non erano più in grado di ripagare i prestiti erogati alla Corona dai banchieri tedeschi, italiani e inglesi.

Gli storici dell'economia hanno spiegato questo declino devastante con l'«inadeguatezza» della teoria monetarista (accumulare oro e argento per finanziare l'economia senza curarsi dei fattori produttivi). A quasi 400 anni di distanza in Italia, invece, si propaganda futura elargizione del reddito di cittadinanza e della pensione di cittadinanza come una vera «svolta keynesiana» della politica economica dopo decenni di incapacità della sinistra, che dell'economista americano ha fatto una bandiera molto più di Marx, nell'invertire una congiuntura economica negativa. D'altronde, se un Paese socialisteggiante come il nostro viene descritto come vittima del «turbocapitalismo», allo stesso modo si può deformare il pensiero di Keynes per costruirsene uno à la carte.

Il teorico della domanda aggregata, spesso svillaneggiato come il suggeritore di soluzioni-tampone per elargire reddito come il pagare i lavoratori per scavare buche e ricoprirle, era in realtà un sostenitore dell'intervento dello Stato affinché realizzasse quegli investimenti (infrastrutture, formazione, eccetera) che i privati rimandavano in periodi di crisi. L'effetto moltiplicatore degli investimenti sui redditi individuali avrebbe giustificato la spesa creando in sé le condizioni per il rientro del deficit.

Le ipotesi relative alla prossima legge di Bilancio indicano che l'Italia voglia percorrere un sentiero molto più simile a quello della Spagna monetarista del XVII Secolo che all'America della Grande Depressione. Secondo le indiscrezioni che circolano, gli investimenti pubblici che la manovra vorrebbe finanziare ammonterebbero complessivamente a 15 miliardi nel triennio 2019-2021 a fronte di una spesa minima di 10 miliardi per il reddito e per le pensioni di cittadinanza che dunque doppierebbero come minimo la spesa in conto capitale.

Anche se è molto probabile che l'elargizione di redditi contribuisca a sostenere i consumi e la crescita economica, restano irrisolti due nodi cruciali. In primo luogo, finanziare queste provvidenze in deficit getta ombre oscure sulla loro sostenibilità nel tempo in quanto fanno crescere il debito.

In secondo luogo, come ha fatto notare il keynesiano Polanyi, il sussidio disincentiva il percettore a reimpiegarsi stabilmente avendo sempre a disposizione un paracadute. L'unica speranza, perciò, è di non finire come la spagna del Seicento.

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