Quel Monte che il Duce non riuscì a piegare messo in ginocchio da giochi e liti del Pci

La commistione con la finanza rossa e le voglie di espansionismo pagate care

Quel Monte che il Duce non riuscì a piegare messo in ginocchio da giochi e liti del Pci

«Sia appiccato per la gola, tanto che muoia sulle forche...». Armenio Melari, cassiere del Monte dei Paschi, subì questa condanna nel 1629. Era stato riconosciuto colpevole di appropriazione indebita ai danni dell'istituto. La sentenza, senza appello e con l'aggiunta della confisca dei beni di famiglia, però non fu emessa da un tribunale, ma dallo stesso consiglio di amministrazione di Rocca Salimbeni che aveva potere di vita e di morte sui dipendenti e sulla clientela. Così girava il mondo a Siena nel diciassettesimo secolo. Alla fine dell'800 era invece l'amministrazione comunale che approvava i bilanci della banca e ne decideva le assunzioni. E perfino Benito Mussolini all'apice del potere, nella prima parte del secolo scorso, dovette rinunciare all'idea di «addomesticare» il Monte, dopo che i senesi arrivarono a schiaffeggiare il Podestà in Piazza del Campo.

Nel 1936, comunque, l'Mps diventò istituto di diritto pubblico (tre membri della deputazione su otto erano di nomina governativa), e tale è rimasto fino al 1995, quando attraverso lo scorporo delle attività di credito è nata la società per azioni, e l'istituto di diritto pubblico si è trasformato in Fondazione Monte dei Paschi. Poi il gruppo senese ha vissuto una trasformazione profonda, la banca è tornata a essere a maggioranza privata, come ai tempi dei Salimbeni ma il legame istituzionale con il territorio è sempre stato assicurato e gestito dalla Fondazione. E dalla politica, non solo locale. Le cronache degli anni passati sono ricche di dichiarazioni e atti che legano esponenti di spicco del Pds-Ds-Pd alle vicende della banca senese, da Walter Veltroni al tandem Pierluigi Bersani-Massimo D'Alema passando per Giuliano Amato e Rosy Bindi. Lo schema era semplice: la politica, attraverso Comune e Provincia controlla la Fondazione. Che a sua volta controlla la banca. Che a sua volta restituisce alla Fondazione, sotto forma di dividendi, le risorse che a questa servono per finanziare il territorio degli elettori. Mentre per la banca dispensa assunzioni importanti. E il cerchio si chiude.

Nel 2007 sono cominciati i guai. L'8 novembre di nove anni fa l'istituto, presieduto da Giuseppe Mussari, annuncia a sorpresa l'acquisto di Banca Antonventa per 9 miliardi di euro (in realtà vennero girati bonifici per 17 miliardi), dal Banco Santander che soltanto due mesi prima l'aveva rilevata da Abn Amro pagando 6,6 miliardi. Per finanziare l'acquisto, Mps si indebita, usa quasi tutta la sua liquidità e vara un aumento di capitale, che fu sottoscritto in buona parte dalla Fondazione che a sua volta si indebita con altre banche. L'estate successiva scoppia la bolla dei mutui subprime, un anno dopo fallisce Lehman Brothers. Il segnale finale della resa arriva con l'inchiesta aperta sull'acquisizione dell'Antonveneta del 2008, coordinata dalla Procura di Siena. Intanto, dopo aver aumentato il capitale e fatto ricorso nel 2009 ai prestiti statali (i cosiddetti Tremonti Bond), la banca è ancora in difficoltà e nel 2011 la situazione precipita: l'Eba, l'autorità bancaria europea, impone all'istituto senese un rafforzamento patrimoniale di 3,2 miliardi. A primavera 2012 viene rinnovato il cda e lascia il presidente Mussari, sotto inchiesta, che nel frattempo si era pure insediato all'Abi. Arriveranno Alessandro Profumo e Fabrizio Viola ma la rinascita tanto attesa non ci sarà. Ed eccoci a oggi.

Fra le contrade, qualche signorotto locale vorrebbe riportare indietro le lancette dell'orologio a quando la rete trasversale partiva dalla Rocca e

abbracciava tutto arrivando fino all'università, la chiesa, il calcio e il basket. Chi si metteva di traverso pagava dazio. Ma nell'anno di grazia 2016 a comandare è la Bce e il mercato. E a pagare non saranno solo i senesi.

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