Niente paura, la Cina non è così vicina

La Borsa di Shanghai ha ieri perso il 6%. Il mercato azionario dell'economia che più ha cambiato il mondo in questi ultimi vent'anni, la «fabbrica del Pianeta», è in caduta libera: ha ceduto (...)

(...) il 35% del suo valore in tre settimane. Tradotto in numeri si parla di un mercato che, come si dice in questi casi, «ha bruciato» qualcosa come tremilacinquecento miliardi di dollari: quasi dieci volte il debito pubblico greco e una volta e mezza quello italiano. C'è dunque da chiedersi se siamo alla vigilia di uno tsunami finanziario di fronte al quale la Grexit non è che un temporalone; o se il crollo di Shanghai, in parallelo con quello dell'altro grande listino di Shenzhen, può innescare uno scossone economico in grado di arrestare la marcia del Dragone asiatico e mandare in crisi anche la ripresa europea. Noi crediamo di no.

Nonostante le dimensioni impressionanti dei crolli di questi giorni, con 1.500 titoli azionari sospesi dalle contrattazioni, il mercato cinese resta una Borsa «periferica». Un termine che, se non si addice di certo alle dimensioni, si giustifica però sia con il basso peso specifico internazionale, sia con la scarsa penetrazione del mercato nei meccanismi economici e finanziari di famiglie e imprese cinesi. Sul primo punto parliamo di listini con mega capitalizzazioni, ma circoscritti al territorio cinese, poco correlate con le altre: gli investitori stranieri non possono accedervi direttamente, ma solo attraverso prodotti derivati. Shanghai e Shenzhen sono Borse facilmente guidate dallo Stato, nel senso che è stata una delle politiche governative della Repubblica popolare cinese quella di spingere a investire in Borsa, per abituare piccoli e medi risparmiatori a comprare azioni che da mesi crescevano senza sosta. Così da formare una nuova piccola borghesia capitalista. Il 16 giugno Shanghai guadagnava il 150% in 12 mesi: naturale che arrivasse una correzione, anche se così violenta fa paura. Inoltre non bisogna dimenticare che nonostante il rally del 2014-15, i massimi della Borsa cinese restano quelli del 2007.

Il secondo aspetto è che i cinesi non «vivono di Borsa». Come gli americani, per esempio. Un crollo del mercato di Wall Street, dove sono quotate imprese che traggono da lì le loro risorse e dove sono investiti i risparmi di mezzo mondo, ha facilmente impatto sui consumi e di lì a poco su occupazione, esportazioni.

Non a caso per rimettere in piedi l'economia Usa dopo la crisi del 2008, la Fed ha utilizzato il quantitative easing , cioè ha inondato di liquidità il mercato. E ha funzionato. Ma è un altro mondo: la Cina e soprattutto la sua Borsa non sono ancora così vicine.

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