Q ualcuno se n'è già reso conto. Gli altri, prima o poi, ci arriveranno anche loro. Ai cuccioli d'uomo della generazione coronavirus - la prima dalla fine della guerra a vivere un mutamento così repentino delle sue abitudini di vita - la sparizione improvvisa dell'istituzione scuola sta riservando una consapevolezza nuova: che quelle ore sui banchi non erano solo apprendimento ma erano il loro essere sociale, il vero ambito in cui si relazionavano col mondo. Ed è di quella relazione col mondo che si sentono improvvisamente orfani. Ogni età e ciclo scolastico in modo diverso, ma tutti devono arrendersi all'evidenza: la scuola gli manca. All'apprendimento, alla necessità non solo di proseguire con i programmi ma anche di tenere attiva la funzione dell'imparare, insegnanti di ogni parte d'Italia stanno cercando in queste ore di supplire in qualche modo, e sulle onde dei social volano lezioni, versioni, dialoghi. Ma infanzia e adolescenza sono anche altro: sono fisicità, irrequietezza, contatto. Entrare in terza elementare tenendosi per mano. Spintonarsi sulla soglia del liceo al suono della campanella, in fuga verso la sigaretta e la libertà: e adesso si scopre che la libertà vera era quella dentro. A questo bisogno di fisicità si dà in questi giorni risposta come si può. I più piccoli, che a casa da soli non possono stare, si riorganizzano tra ferie materne, nonni precettati, case di compagni che a turno diventano succursali improvvise della classe. I ragazzi delle medie e delle superiori inventano una quotidianità fatta di compiti e parco, pallone e chiacchiere. Si dirà: a cosa è servito chiudere le scuole se poi i bambini si affollano sullo scivolo dell'area giochi, se cinque ragazzi del professionale si pigiano su una panchina a contatto di fiato? E invece va bene così, perché in questo momento il vero nemico è il numero dei contatti, la sua trasmissione esponenziale. Una scuola da trecento bambini, un liceo da mille studenti, sono un pascolo infinito per il Covid-19, una prateria da conquistare e da cui spargersi verso le case e le famiglie. I microcosmi che si autorganizzano sono invece l'unica mediazione possibile tra il bisogno primario di contenere l'epidemia e quello di continuare a vivere.
Certo, a loro sarà più difficile spiegare quanto è lungo un metro di distanza, o quanto pericoloso è un abbraccio. Ma un po' per volta, in questa emergenza che si annuncia lunga, anche i loro comportamenti cambieranno. D'altronde, come ci insegnano tragedie peggiori di questa, sotto le bombe i ragazzini sono i primi a adattarsi.