Le riforme delle pensioni dei governi Berlusconi hanno salvato la sostenibilità dei conti pubblici molto più della riforma Fornero del 2011. A sostenerlo è la Ragioneria generale dello Stato nel rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico. In particolare, nel documento si legge che «l'insieme degli interventi di riforma approvati a partire dal 2004 hanno generato una riduzione dell'incidenza della spesa pensionistica in rapporto al Pil pari a circa 60 punti percentuali di Pil, cumulati al 2060», cioè poco più di mille miliardi di euro. Di questi, «circa due terzi (660 miliardi) sono dovuti agli interventi adottati prima del decreto Salva Italia e circa un terzo agli interventi successivi».
Si tratta di un riconoscimento ufficiale, benché postumo, della validità di quegli interventi incluse le finestre mobili introdotte nel 2010 (e poi cancellate dalla Fornero che aumentò l'età pensionabile) per sottolineare come dalla riforma Maroni del 2004 (poi parzialmente smontata da Prodi) si sia posto un argine all'incremento della spesa pensionistica causato dal progressivo invecchiamento della popolazione. Non è una sottolineatura causale perché la Ragioneria, guidata da Daniele Franco (insediato da Saccomanni ma confermato l'anno scorso per volontà di Padoan), ha evidenziato come «la legge di Bilancio 2017 ha previsto dopo vent'anni un ampliamento della spesa ed una retrocessione nel percorso di elevamento dei requisiti di accesso al pensionamento» che dal 2004 al 2016 è aumentata da 59,6 a 62,4 anni.
Il ministro Padoan, come ampiamente preventivabile visto il clima da assalto alla diligenza sul fronte pensionistico, ha perciò posto un'ipoteca sul dibattito previdenziale che riprenderà a fine mese tra il ministro Poletti e i sindacati. Il rapporto, che è un'elaborazione delle stime del Def, evidenzia che «interventi legislativi diretti a limitare, differire o dilazionare gli adeguamenti automatici, previsti dalla normativa vigente, determinerebbero comunque un sostanziale indebolimento della complessiva strumentazione del sistema pensionistico».
Il monito è chiaro: meglio archiviare l'ipotesi di bloccare l'aumento dell'età pensionabile che dal 2019 dovrebbe passare da 66 anni e 7 mesi a 67 anni. Un simile orientamento comporterebbe una maggiore spesa di circa 0,8 punti di Pil nel 2033 (13,6 miliardi in più). In ogni caso, a scanso di equivoci, lo sconto sui requisiti sarebbe temporaneo perché il criterio anagrafico per l'uscita dal lavoro «verrebbe comunque adeguato a 67 anni nel 2021», applicando la clausola di salvaguardia introdotta nell'ordinamento su specifica richiesta della Commissione e della Bce». Il ritorno della materia previdenziale nell'ambito della sfera della «discrezionalità politica» dopo che gli interventi precedenti erano stati valutati «con estremo favore dagli organismi internazionali e, in primo luogo, in ambito europeo» significherebbe determinare «il conseguente peggioramento della valutazione del rischio Paese», cioè un abbassamento del rating.
Toccare il meccanismo che, in base all'aspettativa di vita (l dato ufficiale Istat è atteso prima della manovra), modifica requisiti di accesso e coefficienti di trasformazione, cioè il
rapporto fra contributi e assegno, smantellerebbe il sistema determinando «una maggiore spesa per 21 punti di Pil (357 miliardi) al 2060». Cifre pesanti che condizioneranno i tavoli di confronto e rimbomberanno pure al Nazareno.
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