L'incontro c'è stato, il feeling confermato, la decisione rinviata. «Mi pare che ci siano le condizioni per arrivare ad una convergenza ampia sul tema delle soglie di sbarramento», mentre sulla vexata queastio delle preferenze «andrei più cauto», spiega al termine del vertice Renzi-Berlusconi a Palazzo Chigi Lorenzo Guerini. Il vicesegretario del Pd, che insieme a Lorenzo Lotti ha partecipato all'incontro (sul fronte berlusconiano c'erano invece Denis Verdini e Gianni Letta) viene spedito dal premier a tenere a bada i giornalisti, che per ben tre ore hanno bivaccato davanti alla sede del governo in attesa di una fumata bianca o nera sull'Italicum. Invece la fumata è stata grigia, perché «il confronto proseguirà nelle prossime settimane», e i nodi sono destinati a sciogliersi solo a settembre, quando in commissione al Senato bisognerà cominciare a calare le carte.
È che, con buona pace delle sfrenate fantasie complottarde sui suoi contenuti, il famoso Patto del Nazareno si conferma innanzitutto un metodo: i leader di Pd e Forza Italia tengono aperto un tavolo che, per entrambi, è un prezioso strumento per far politica, per mettere paura agli avversari e per tenere a bada gli alleati. Al premier l'avere a disposizione un «secondo tavolo» con il Cavaliere gli serve come il pane dentro il Pd e nella stessa maggioranza, come strumento di pressione contro i potenziali ricatti e come lusinga per tenerli compatti attorno a sé. E lo stesso vale, mutatis mutandis , anche per il Cavaliere.
Se dunque nessuna decisione esplicita è stata annunciata al termine del lungo summit («Berlusconi ci ha anche raccontato una barzelletta, ma il contenuto non ve lo dico per correttezza istituzionale: solo lui e il premier possono riferirla», scherza Guerini) non è perché tra i due fronti ci siano complicate mediazioni da fare - anzi, «l'intesa tra loro è già più che fatta», assicurano i ben informati, ed entrambi vogliono toccare il meno possibile dell'attuale impianto: una limatina al ribasso del quorum per i piccoli partiti per dare un contentino ad Angelino Alfano e agli altri, il rialzo della soglia del ballottaggio al 40%, un'ipotesi di lavoro sulle preferenze che non scalda nessuno dei due «pattisti». È perché «se si chiude ora sull'Italicum, poi che facciamo di qui a fine anno?», scherza (ma non troppo) un parlamentare renziano. Insomma, il tavolo Italicum più Senato (anche lì le eventuali modifiche sono rinviate al prossimo giro, mentre sulla Pa il governo ha posto la fiducia) serve anche a tenere al centro dell'attenzione politica e mediatica il processo delle riforme che si stanno facendo. Anche per distoglierla almeno in parte dal bicchiere mezzo vuoto, quello dell'economia. Di cui si è pure parlato, ieri a Palazzo Chigi, e sulla quale c'è la disponibilità di Fi a dare una mano in Parlamento su provvedimenti che (come per le riforme in materia di giustizia) siano digeribili. Nessun interesse di Fi ad entrare al governo, o di Renzi a farcelo entrare, ma una conferma del sistema del «doppio tavolo» anche oltre l'Italicum. Ieri i dati Istat sul Pil sono usciti proprio mentre il faccia a faccia era in corso, e subito dopo Matteo Renzi ha preso carta e penna e vergato una lettera a tutti parlamentari di maggioranza, che da venerdì andranno in ferie, per incitarli ad andare avanti nel «percorso senza ritorno» delle riforme, e per fissare i punti dei famosi «mille giorni». Cinque «obiettivi politici», a cominciare dalla riforma costituzionale e dalla legge elettorale (con «garanzia di un vincitore e di stabilità»), altri cinque catalogati nel «profilo amministrativo».
Cultura, scuola, Rai, lavoro, fisco, burocrazia, giustizia: «In queste ore i dati negativi sulla crescita non devono portarci alla solita difesa d'ufficio. Dobbiamo avere il coraggio e la voglia di guardare la realtà: l'Italia ha tutto per farcela e per uscire dalla crisi. Ma deve cambiare».
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