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La rivoluzione (del) francese: lingua più povera ma per tutti

Dietro ai ritocchi agli accenti c'è l'idea di una scuola dove il sapere si adatta a chi impara e non viceversa

La rivoluzione (del) francese: lingua più povera ma per tutti

Il Diavolo, si sa, si annida nei dettagli e quindi varrebbe la pena andare più in profondità a proposito della cosiddetta «rivoluzione degli accenti» che in Francia, Paese causidico per eccellenza, sta provocando dibattiti e prese di posizione. In soldoni, si tratterebbe di una riforma che riguarda l'abolizione di quelli circonflessi su più di duemila parole e la semplificazione dell'ortografia di altre quattrocento. I favorevoli al cambiamento la ritengono «un piccolo aggiornamento» che non provocherà danni, e fanno presente che si tratta di una riforma anche troppo a lungo attesa: data infatti del 1990.

Messo così, il discorso non fa un piega, non fosse che è vero anche il suo contrario: se è poca cosa, se costa poco o niente (la revisione dei libri di testo), se è innocua, ci si chiede che senso abbia e se non era il caso di lasciare tutto come prima.Il fatto è che sotto il circonflesso e la semplificazione ortografica c'è un'idea della scuola che, da un quarantennio a questa parte, è andata erodendo il vecchio edificio repubblicano. Il suo obiettivo principale non è l'istruzione, ma l'eguaglianza, dove l'allievo è al centro del sistema e dove quindi il sapere si adatta allo studente e non viceversa. È quella che uno studio di Benoît Hamon, definì «la scuola della benevolenza» dove al bambino e poi al ragazzo è permesso di scoprire da solo il sapere. È il primato della discussione sulla lezione, ovvero l'eguaglianza fra il sapere e l'ignoranza. Non più luogo di educazione, ma forum di discussione, questo ideale scolastico non si basa più sulla conoscenza, ma sulla chiacchiera, sull'opinione. Secondo lo storico Jacques Juillard, di cui è appena uscito L'école est finie (Flammarion ed.) è una deriva pedagogica dove la materia da insegnare scompare, perché il metodo si affranca dalla materia stessa che andrebbe appresa.

«È particolarmente evidente nel campo della letteratura. Ho letto i programmi: gli scrittori sono scomparsi! L'ideale è prendere per oggetto la lingua più neutra e più piatta possibile, un volantino elettorale, un avviso farmaceutico, e su di essi far imparare il francese. Non si vuole più formare un cittadino, ma far felice lo studente». Di questa evoluzione, di cui l'attuale ministro all'Istruzione Najat Vallaut-Bekacem è l'ultimo ma il più virulento rappresentante, fa parte anche il cambiamento dei rapporti genitori-figli. Non essendo più vista dai primi come strumento di educazione civica, ma semplicemente come mezzo di promozione individuale, sono venute meno le basi stesse dell'educazione. Se la scuola si trasforma in una branca dello Stato sociale, come l'assistenza medica, i servizi pubblici, la polizia, si capisce anche la monomania educativa egemone, l'idea di una scuola come agenzia di collocamento. Non è un caso che la riforma scolastica e dei programmi della Vallaud- Belkacem abbia, stando ai sondaggi, contrari il 75 per cento dei professori. In essa si incarna proprio l'idea di una scuola che è semplicemente un supermercato dell'insegnamento e che si disinteressa del cittadino, una scuola dove non si educa e dove, naturalmente, si impara sempre meno.

Così, la rivoluzione ortografica e degli accenti non è altro che il togliere ostacoli, un semplificare, tipico dell'era del computer e della comunicazione globale, un maquillage al basso, per evitare ancora e sempre ogni accusa di diseguaglianza, un eliminare gli ostacoli per paura che qualcuno possa inciampare.

Senza capire che imparare a cadere serve di più che stare in piedi a forza di stampelle.

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