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Scontri in piazza, feriti e due agenti morti. Ora la protesta infiamma anche la Colombia

Guerriglia urbana e coprifuoco a Bogotà. Contestato il presidente Duque

Scontri in piazza, feriti e due agenti morti. Ora la protesta infiamma anche la Colombia

San Paolo - Dopo Ecuador, Bolivia e Cile, l'ultimo paese ad incendiarsi in America latina è la Colombia. Un film già visto, con proteste che iniziano in modo pacifico e poi, con il passare delle ore, si trasformano in guerriglia urbana che, come unico obiettivo, sembra avere quello di distruggere infrastrutture, attaccare la polizia, incendiare autobus e saccheggiare la proprietà privata. Distrutte 76 stazioni della TransMilenio-la linea di trasporto rapido su gomma di Bogotà-79 autobus incendiati/vandalizzati (uno sequestrato con l'autista costretto a scorrazzare per la capitale con all'interno decine di black block), danni per milioni di euro, con la centrale Piazza Bolivar trasformata in un campo di battaglia.

Danneggiate la cineteca, le sedi del municipio e del Parlamento, la scultura simbolo di Bolívar, oltre al Palazzo di Giustizia, al Consiglio di Stato e alla Corte Suprema. Era dai tempi di Escobar che Bogotà non viveva giorni così. Per non dire delle centinaia di negozi saccheggiati da giovani incappucciati che si spostavano con tecniche di guerriglia urbana e una capacità di coordinamento superiore a quella della Polizia, incapace di contenere l'orda barbarica. La scintilla che ha trasformato Cali e Bogotà in campi di battaglia, costringendo le autorità a decretare il coprifuoco, è stato lo sciopero generale di giovedì 21 novembre. Sindacati e partiti della sinistra riuniti intorno all'ex guerrigliero amico di Chávez, Gustavo Petro-comprese le FARC che hanno fatto sfilare in prima fila il loro leader Timochenko-protestavano contro la riforma pensionistica del presidente Iván Duque ma anche per denunciare l'uccisione di leader indigeni nel dipartimento del Cauca. Paradossale visto che quella zona di Colombia è controllata dalla dissidenza terrorista delle FARC, che ha ripreso le armi a luglio dopo l'incontro a Caracas del Foro di San Paolo (il braccio armato della sinistra latinoamericana) e la nascita del Foro di Puebla (il braccio politico). Ma anche dall'ELN, l'Esercito di Liberazione Nazionale (cattocomunista) e da altri gruppi paramilitari che controllano il Cauca, dove si produce gran parte della coca colombiana.

«La protesta pacifica è legittima-ha chiarito ieri in un messaggio alla nazione il presidente Iván Duque, visibilmente scosso-e da domani inizieremo un dialogo nazionale con tutti i movimenti sociali per combattere la povertà e ridurre la disuguaglianza». Difficile che basti, visto che Duque è ai minimi storici di gradimento e il milione di persone scese in piazza giovedì (250mila secondo le forze dell'ordine) lo dimostrano. Di certo c'è che ieri la colonna Dagoberto Ramos delle FARC dissidenti, non il partito politico di Timochenko che ha sfilato a Bogotà ma i narcoterroristi che producono il 70% della cocaina colombiana, ha fatto esplodere un'autobomba a Santander de Quilichao, proprio nel Cauca, in una stazione della polizia.

Morti sul colpo gli agenti Ever Danilo, Jesús Norbey e Roy Valentino, mentre altri 7 sono rimasti gravemente feriti.

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