La vita è così vuota che la riempie un telefonino

Un uomo di mezza età racconta il disagio di fronte alla modernità. Le sue ironiche riflessioni valgono sempre e per tutte le generazioni

La vita è così vuota che la riempie un telefonino

Venerdì scorso il Corriere della sera ha pubblicato in prima pagina una fotografia simbolica della nostra epoca tecnologica: ritrae due morosi (si presume) accoccolati su una panca in atteggiamento affettuoso: lei sta in braccio a lui ed entrambi, anziché baciarsi, osservano attentamente il display dello smartphone. Sono appiccicati, forse si vogliono bene, magari si sposeranno, ma intanto badano a sé, impegnati a compulsare il proprio cellulare. Leggono sms o ne scrivono?

L'immagine riflette fedelmente il modo di vivere attuale, molto diverso da quello di un tempo non remoto, quando le coppie si guardavano negli occhi, parlavano d'amore, disegnavano insieme i propri sogni. Adesso sono distratte, immerse nel mondo virtuale: quello reale non importa né alla ragazza né al ragazzo, che si ignorano, essendo attratti dall'oggetto da essi impugnato più che dal corpo amato.

L'istantanea racconta meglio di un saggio sociologico i costumi d'oggidì. Ognuno di noi si relaziona con gli altri tramite il telefonino, che è diventata una prolunga della persona, un ponte che ci collega con chi è lontano e ci allontana da chi ci è vicino. Se vai al ristorante con un'amica o un amico, la conversazione è spezzettata dalla lettura dei messaggi che piovono a ripetizione sui cellulari, anche se silenziosi, poiché l'arrivo degli sms è segnalato dall'illuminazione del display.

Impossibile chiacchierare senza interruzioni dovute a «urgenti» comunicazioni in entrata e in uscita. Raramente qualcuno spegne l'apparecchio. Si pensa che sia normale pranzare tra una chiamata e un'altra. La gente che viaggia in metropolitana è intenta a digitare. Non smette un istante di picchiettare sui tasti. Mi domando a chi e perché scriva senza pause. Probabilmente è collegata con un social network: Twitter, Facebook. Oppure ha attivato uno dei giochi offerti dall'iPhone. Sta di fatto che nessuno legge giornali o libri: la maggioranza, anche quando attraversa la strada infestata dal traffico, armeggia con il telefonino. Un'ossessione.

Il concetto di comunità si è sbiadito. Ogni uomo o donna è un pianeta a sé che si collega con i propri simili per via telematica. Gli incontri personali avvengono casualmente e soltanto formalmente. La massa non ha più una vita reale, ma solo virtuale. Il computer poi ci ha staccati dal consorzio umano. I ragazzi trascorrono ore e ore davanti allo schermo del personal, discutono in gruppo tramite la tastiera, si danno appuntamento, si fidanzano, fanno l'amore via web.

In questo modo l'esistenza si è arricchita o impoverita? Indubbiamente, i confini della conoscenza si sono allargati, ma quelli dell'esperienza si sono ristretti. La vita ha perso sapori e odori, è asettica, algida. Perfino nelle redazioni, che bazzico spesso, scorgo colleghi silenziosi nel loro box, incollati al computer: che fanno, lavorano? Macché, si trastullano con le carte, di cui il loro schermo è zeppo. Un tempo era consuetudine il pokerino condominiale del sabato sera. Gli amici facevano le ore piccole tra «vedo», «chip» e «rilanci». Stavano al tavolo insieme e si divertivano o fingevano di appassionarsi all'azzardo. Adesso l'avversario non è più il ragioniere Rossi, bensì un congegno elettronico. Squallido. Triste.

Alcuni giorni fa è uscito un romanzo di Michele Serra, Ognuno potrebbe, edito da Feltrinelli che, dello stesso autore, pubblicò Gli sdraiati (350mila copie, un record). Serra propone la storia (e i pensieri apparentemente strampalati) di Giulio Maria, trentaseienne disadattato che manifesta i propri disagi (condivisi da una moltitudine) in maniera elegante e talvolta divertente. Uno dei temi è il tipo di relazione dei giovani (e anche degli anziani) col cellulare, strumento ormai considerato un'appendice umana. Tant'è che, in caso di incidente di strada, chi ne è vittima si preoccupa prima di recuperare l'iPhone e poi di verificare la gravità delle ferite riportate.

La prosa dell'autore è raffinata, fin troppo ricercata, anche se meno leziosa e, quindi, più scorrevole di quella della rubrica «Amaca» che il corsivista sulla Repubblica tiene quotidianamente. Il libro affronta lo smarrimento di un uomo avviato alla mezza età, alle prese con le «delizie» della modernità in un Paese storto che non stimola a fare: costringe semmai a subire, crea nichilismo e induce parecchi soggetti a una sorta di dolorosa rassegnazione.

Ho un sospetto. Il protagonista del romanzo ufficialmente è Giulio Maria, ma ho l'impressione che il vero narrante sia lo stesso Michele Serra, tanto sono disincantate e argute le annotazioni che si susseguono pagina dopo pagina. Egli è riconoscibile nei ricordi di infanzia, nei dialoghi con mamma e papà, nelle frasi che rievocano il fastidio che il ragazzo suscitava nel padre allorché questi gli rimproverava di avere pronunciato, in un colloquio, dieci volte il pronome «io».

Interessante il capitolo dedicato alle rotatorie che rinciucchiscono l'automobilista al punto da fargli perdere la trebisonda e la via di casa. Così come la ricostruzione del blocco della circolazione provocato dalla morte misteriosa di un cinghiale (forse suicida!) che solleva interrogativi strambi nei soccorritori. Ne rammento uno: il porco solitario può essere stato stroncato dalle esalazioni chimiche di certe fabbriche? Poi ci sono le riflessioni sulle elucubrazioni astratte e sul pragmatismo integrale di alcuni individui, sulla maleducazione imperante, sull'indefinitezza di un giovane e sulle disillusioni di un anziano. Sorvolo sul lavoro manuale e sulla ricerca di qualcosa di meglio, nonché sul bagaglio di malinconie che ogni essere si porta appresso quale condanna. Resta da sottolineare l'insensatezza della vita contemporanea, sopportabile soltanto se si trova un giocattolo (o due o dieci) capace di stordire l'uomo di qualsiasi età. Rotto il giocattolo, o i giocattoli, non c'è altro che giustifichi la sopportazione del tran-tran esistenziale.

Francamente, non ho capito perché Ognuno potrebbe sia stato accolto da qualche critico come un'opera minore, poco convincente, non all'altezza di interpretare il sentire delle generazioni successive a quella di Serra.

Gli esseri umani sono immutabili, al di là delle forme cui si adattano e degli ambienti nei quali soffrono. La verità è che patiscono anche quando sono persuasi di essere contenti (non dico felici per pudore). A me le afflizioni ironiche di Serra garbano assai.

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