Gino Paoli sostiene che cera un forte interesse per la morte, tra i giovani di quegli anni Sessanta. Tantè che lui, nel 63, si sparò nel cuore e sopravvisse, Luigi Tenco, nel 67, si sparò in testa e non sopravvisse, e intanto Endrigo ricamava lepicedio dolce e feroce di Via Broletto, e lemergente De André popolava di morti ammazzati le sue ballate. Io non so quanto fosse genuina quella fascinazione un po macabra, in una generazione, la nostra, capace destasiarsi al «vizio assurdo» di Pavese non meno che alle massime di Mao. Ricordo solo che Genova aveva un volto buio, la sovrastava un sudario di nubi quel 27 gennaio che alle cinque del mattino mi svegliarono per dire che Luigi, dunque Tenco, se nera andato di sua volontà, affranto per la bocciatura sanremese della sua Ciao amore ciao, non un capolavoro, certo.
Furono giornate in bianco e nero, fino al funerale cui andammo due giorni dopo: con le campagne intorno ad Acqui - Ricaldone, Cassine - drappeggiate nellinverno, dunque in un freddo nebbioso e comunque incolore. Lintera epoca, daltronde, era in bianco e nero, o lo è nelle iterazioni che ce ne offre la memoria. Come i programmi della tivù dallora, per esempio quel Maigret con Gino Cervi cui Luigi aveva fornito la sigla musicale. Tutte cose che a ripensarle offrono lidea dun passato irripetibile, remoto, tuttal più da rimpiangere dolcemente proprio come le canzoni di Tenco: Cervi con i baffoni la pipa e la sua umanità burbera, gli scenari che anticipavano la Parigi «tutta pioggia e Francia» poi cantata da Paolo Conte, latmosfera da crepuscolo e alla fine dogni episodio la voce di Luigi, così soffice e così daltri tempi: «Un giorno dopo laltro/ e tutto è come prima/ le strade sempre uguali/ le stesse case».
Cosa cera di più bianco e nero di quel demi-monde in cui vivevamo, conteso tra le ansie della guerra fredda e i trionfalismi dun miracolo economico già declinante? Ma questo lo sapevano gli adulti. In noi, più giovani e più irrealisti, lievitava una voglia crescente di colori, ecco a cosa tendevano certi slogan, «limmaginazione al potere» e dunque il Sessantotto che sannunciava. Vivevamo la vita come uno di quei disegni che si danno ai bambini da colorare, e Luigi era uno che di questa illusione, pur contrastandola, si nutriva: rivestire di tinte il bianco e nero dellesistenza, della socialità, della politica magari.
Non che gli altri del giro, Endrigo, Gaber, Bindi, Lauzi, De André, oggi tutti defunti, e Paoli, unico superstite, fossero diversi. Ma era gente più scafata: Luigi aveva un candore in più, e alla fine lottimismo della volontà attutiva il pessimismo della ragione. Lui silludeva davvero di riuscire a colorarlo almeno un poco, quel mondo in bianco e nero che rammentava i coevi film di Fellini, Visconti, Antonioni, Pasolini, perseguitati dai censori perché non erano abbastanza in bianco e nero, ne trapelava unimplicita, eversiva bramosia di colore. Così Luigi: e questa candida tenacia costituiva il connotato che più ce lo faceva amare, intenerendoci di là dai limiti del suo talento, facendoci deglutire, accanto alle sue splendide canzoni damore, alcuni brani di denuncia invero bruttini. Dice bene Renato Tortarolo, nel bel libro di cui si parla qui accanto: per Tenco quello fu «veramente il great time, il tempo imperdibile per dire quello che si pensa». E cè in questa fiducia tutto il carattere dun artista tuttaltro che desolato, convinto anzi della propria utilità sociale, e del resto «uomo divertente, con una forte introspezione che non gli impediva di affrontare la vita come una gioiosa sfida quotidiana».
Così ricordo Luigi: ironico, talora burlone, facile a entusiasmarsi, gran musicista e però «poeta» condizionato, sovente, da uningenuità cui forse gli anni avrebbero posto un argine, non lo sapremo mai. Sfida gioiosa? Ma sì. Ripenso a Vedrai vedrai, nacque da un difficile rapporto tra madre e figlio, eppure è facile cogliervi una vena di speranza: «Vedrai, vedrai/ vedrai che cambierà/ non so dirti come e quando/ ma un bel giorno cambierà». E riascolto E se ci diranno, cera la guerra del Vietnam e vengano pure a dirci «che per rifare il mondo/ cè un mucchio di gente da mandare a fondo/ noi risponderemo no, no, no». E ancora Ciao amore ciao, via da questo mondo grigio, torniamo «al grano da crescere/ ai campi da arare», ai colori.
Del resto non gli veniva soltanto dalla sua irrequietezza di contadino inurbato, questa utopia dun mondo «altro», da costruire o quanto meno da ridipingere. Gli veniva dallaria stessa di Genova, città bifronte come il dio che le diede il nome: con una parte bassa, portuale, salina, ribelle, e una alta, aristocratica, ricca, consuetudinaria. Lui e altri - De André, Paoli - le vissero e patirono entrambe, la Genova di Siri, di Taviani, dei grandi armatori e quella dei camalli, dei primi cabaret, dei moti di piazza che nel giugno 60, e Tenco cera, fecero saltare un congresso missino e il governo Tambroni. Due Genova in conflitto insanabile, donde lirrequietezza dei suoi grandi artisti e lindole pugnace del loro talento.
Ecco, se fosse sopravvissuto, e se avesse continuato a scrivere, sperimentare, sublimare in vera genialità quel suo ispirato candore, Luigi Tenco sarebbe diventato il grande che non fece in tempo ad essere, pur promosso genio per meriti di martirio, in un livido gennaio di unepoca ormai preistorica.
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