Quel sabato d’addio alle marchette tra canti, balli e qualche lacrima

L’ultimo giorno di apertura nei locali si festeggiò con un po’ di amarezza: la legge Merlin doveva liberare la donna Ma le cose sono andate diversamente

Era un sabato, sabato 20 settembre 1958. Sant’Eustachio. Allo scoccare della mezzanotte l’Italia disse addio alle case di tolleranza o chiuse o, più semplicemente, ai casini. Le cerimonie dell’addio presero il via il giorno prima. Si era diffusa la voce, tra gli habituées, che come ultimo, gentile omaggio della Casa, la spettabile clientela avrebbe potuto consumare senza pagar marchetta. Per cui ci fu una gran ressa nei luoghi deputati e poco contò che nella maggioranza dei casi la prestazione a titolo grazioso si rivelasse una leggenda metropolitana. Si fece baldoria, volarono al soffitto centinaia di tappi di spumante e furono svuotati non so quanti bicchierini di Prunella Ballor o di Vecchia Romagna. Ove presente, il tapeur, il pianista, ci diede dentro a più non posso e vennero intonati cori ai quali gioiosamente si unirono le disinibite signorine, cori che poi finirono per comprendere, per sola voce maschile, l’intera serie delle «osterie», dalla numero uno alla numero mille. Poi subentrò la mestizia, subentrò la malinconia. La legge Merlin le aveva certo liberate dal duro giogo della «quindicina», le aveva rese libere, aveva restituito loro la dignità di donna, spezzato le catene della schiavitù. Però quel sabato a vedere una pensionante esultare ce ne voleva. Forse perché erano le prime a sapere che ciò che la legge Merlin apriva a molte di loro, era il marciapiede.
Nessun luogo dipinto come sentina di depravazione civile e morale fu raccontato in vita e in morte con l’affettuosa indulgenza riservata alle case chiuse. Basta scorrere le pagine di Buzzati o di Giancarlo Fusco, di Zavattini o di Ercole Patti per finire ad Indro Montanelli e al suo «Addio Wanda!» («il colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura garanzia»). O ricordare film come «Totò cerca casa» («questo ingresso mi ricorda qualcosa... questa stanza mi ricorda una faccia, che dico, un... » borbottava, nuovo inquilino di un appartamento che fu un bordello) o il passaggio trionfale e trionfante della «quindicina» per le vie di Rimini nell’Amarcord di Fellini, massimo cantore del mondo (lui diceva «della civiltà») delle case di tolleranza. Già il nome, poi. Luogo dove si tollera, si dimostra indulgenza per atteggiamenti diversi dai propri. Espressione nata al tempo del Papa Re, quando, ritenendo l’unione fra uomo e donna cosa troppo seria per esser subordinata agli istinti, alle voglie maschili, la Chiesa tollerava - appunto - che le sfogassero extra moenia. In luoghi da essa controllati e amministrati.
Non vorremmo passare per nostalgici e dar l’impressione di sottostimare il fondamentale problema della condizione femminile. O di prendere sottogamba le «problematiche», come s’usa dire oggi, che indussero la senatrice Lina Merlin a promuovere la legge che porta il suo nome.

Ma non è retorico affermare che quel 20 settembre 1958 si voltò una pagina della storia e del costume italiano, con i suoi cerimoniali, leggende, personaggi, storie e momenti di gloria (i patriottici bordelli di retrovia durante la guerra 1915-18, con le Veneri tarchiate e brunazze che alla chiamata si presentavano avvolte nel tricolore. Tutta roba che manteneva alto il morale della truppa). Bene, si voltò pagina e si decise di farlo per dare a quante volenti o nolenti imboccassero la via del meretricio un mondo migliore. È migliore?

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