Cultura e Spettacoli

RECENSIONI BLUFF

Non esiste in natura - è risaputo - un animale più permaloso del giornalista. La professione (soprattutto settore Cultura) poggia su basi così friabili che basta smuovere un po’ il terriccio per far franare tutto. L’altroieri abbiamo scritto un’ovvietà, e cioè che sopra una certa soglia è materialmente impossibile leggere tutti i libri che molti critici e giornalisti culturali recensiscono sulle pagine di quotidiani, magazine, e periodici vari (fino a 5.300 pagine al mese!), avanzando l’ipotesi che spesso e volentieri - cosa peraltro che abbiamo sempre fatto anche noi, che pure siamo sui quattro-cinque volumi letti a settimana - i libri si «annusano», si leggiucchiano o si sfogliano appena. Ed ecco che la categoria dei Recensori si sente ferita nella sua professionalità, grida all’offesa, si indigna, promette vendette...
Antonio D’Orrico si è talmente risentito da sbatterci in faccia (con la stessa supponenza con la quale parla di Philip Roth come se l’avesse scoperto lui) le sue straordinarie «capacità» di lettura. L’amico Alessandro Gnocchi, capocultura di Libero, invece che prenderla con l’ironia con la quale ha sempre condito le sue pagine, ci accusa di scorrettezza perché abbiamo sbagliato un conteggio (attribuendo a Francesco Borgonovo dodici recensioni in un mese invece che undici). E un’altra collega, della quale tacciamo il nome, ci ha inviato una mail assicurandoci che lei legge davvero tutto quello di cui scrive, e che per farlo si alza alle 5.45 del mattino! Piuttosto che affrontare un sacrificio del genere, preferiamo cacciarci degli spilli negli occhi. Smettendo di leggere una volta per tutte.
E sì che nel nostro articolo, che continuiamo a ritenere un semplice divertissement, abbiamo affrontato soltanto l’aspetto «quantitativo» della questione. Figuriamoci se avessimo voluto discutere quello «qualitativo», chiedendoci a che titolo, con che competenza, e con che faccia, si può recensire - chessò - lo Zohar (uno dei testi più criptici del misticismo ebraico) al lunedì, Vidiadhar Naipaul al mercoledì e Eraldo Affinati al sabato. Oppure Vladimir Nabokov al giovedì, Nikolaj Gogol al giovedì e William Somerset Maugham al giovedì. Per dire...
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Comunque, non tutti i recensori rientrano nella suscettibilissima categoria dei “Saltapagine”. Per fortuna c’è ancora qualche “cecchino”, quei critici cioè che scrivono solo ed esclusivamente di quello che leggono. Per intero. Il Numero Uno, in questo senso, è Alfonso Berardinelli, romano, classe (da vendere) 1943, emerito critico letterario e saggista che nell’ormai lontanissimo 1985 insieme a Piergiorgio Bellocchio fondò e diresse la rivista di critica Diario e che per parecchi anni ha tenuto la cattedra di Letteratura contemporanea all’Università di Venezia prima di dimettersi, a metà degli anni Novanta, in aperta critica con il sistema corporativo della cultura in Italia.
Professor Berardinelli...
«No, guardi: sono stato disposto a perdere uno stipendio per evitare il fastidio di essere chiamato “professore”. Lasci stare, non insegno più da parecchio».
Però scrive.
«Sì, quello continuo a farlo. Ma poco».
Per quali giornali scrive attualmente?
«Dallo scorso ottobre scrivo per tre giornali: un articolo alla settimana sul Foglio, una rubrica di duemila battute su Avvenire del sabato e una recensione al mese per l’inserto culturale del Sole 24 Ore. Non ho mai scritto tanto per i giornali. Se riuscissi a vivere con una sola collaborazione lo farei. Ma per quanto paghino decentemente, nessun giornale mi ha finora garantito da solo un salario sufficiente. E sì che le mie esigenze sono modeste...».
E una volta?
«In passato ho scritto per il Corriere della Sera, l’Unità e Panorama. Ma solo ogni tanto. Non era un lavoro».
Quante recensioni scrive, in media, in un mese?
«Le recensioni, in particolare di romanzi, sono faticose, richiedono la lettura dell’intero libro, se non altro per sapere come va a finire, anche se la qualità della scrittura si vede con poche pagine. Non ho mai fatto dei calcoli, ma le recensioni vere e proprie che scrivo non sono più di tre al mese. Recensisco più saggistica e poesia che romanzi. Recensivo solo romanzi sul Foglio quando il ritmo era di due recensioni al mese».
E in media quante pagine legge al mese?
«In media leggo circa 30 pagine al giorno, molto meno di mille al mese. Sono un lettore lento, quando leggo mi vengono in mente troppe cose e mi interrompo continuamente per scrivere qualche idea».
Quale è la soglia massima oltre la quale diventa impossibile leggere?
«La soglia massima per me è piuttosto bassa. Leggere più di cento pagine al giorno mi dà un senso di intossicazione. Ho la digestione lenta. Penso molto mentre leggo: sono reattivo alle parole. Non sono un divoratore di romanzi. C’è chi legge tre romanzi a settimana: per me sarebbe una tortura. Non credo che faccia bene. A nessuno».
Mai scritto di un libro senza leggerlo per intero?
«Mai se si tratta di un romanzo. Per recensire un libro di poesia basta leggere tutto una volta e poi rileggere bene i cinque o dieci testi più importanti. Lo stesso vale per un saggio: in questo caso commento prevalentemente le citazioni che faccio. Ma in due casi ho scritto delle stroncature satiriche di parecchie pagine recensendo provocatoriamente solo la prima frase. Fu con l’introduzione di Alberto Asor Rosa agli innumerevoli volumi della Letteratura italiana Einaudi da lui diretta per vent’anni. La frase era: “La letteratura è un fenomeno complesso”, una frase lapalissiana, esilarante. La seconda volta recensii la prima frase del Pendolo di Foucault di Eco: “Fu allora che vidi il pendolo”. L’autore più furbo del mondo era tutto lì».
Se un libro proprio non piace è lecito fermarsi e stroncarlo?
«Sì, ma bisogna detestare l’autore e conoscerlo a fondo, a memoria. Allora non si stronca il libro, si stronca l’autore in blocco».
Pier Paolo Pasolini si chiedeva: se un recensore stronca un libro con argomenti pretestuosi, anche con falsificazioni tendenziose e magari senza nemmeno averlo letto per intero, l’autore del libro cosa deve fare?
«Chi viene stroncato può rispondere. Io di solito mi metto a recensire la recensione e stronco quella cercando di mostrare, se possibile, la sua ottusità e le sue truffe linguistiche».
Le è mai capitato che uno scrittore da lei recensito l’abbia accusato di non averlo letto davvero o di non averlo letto completamente?
«Le solo obiezioni, mi pare, mi sono venute una volta dalla saggista Carla Benedetti, che mi ha risposto. Ma la mia era una recensione ironica in forma di lettera. Così lei ha risposto con un’altra lettera. Quando me la prendo con un autore che tuttavia stimo, recensisco in forma di lettera, apro un dialogo polemico».
Si stupisce nel vedere critici o giornalisti culturali che recensiscono libri per 5.300 pagine al mese?
«Chi legge, o dice di leggere, più di cinquemila pagine di narrativa al mese merita compassione, sia che le legga davvero sia che bari».
Quali sono le caratteristiche di una buona recensione?
«Una buona recensione deve informare e contenere una chiara descrizione del libro. Se il recensito è un amico, è bene dirlo o farlo capire. Poi bisogna cercare di interessare il lettore con qualche ragionamento generale, con qualche osservazione testuale, magari citando alcune righe. Infine sarebbe bene che il recensore si rivelasse almeno con una frase sul come e sul perché ha letto il libro».
Ma la gente - il lettore comune - secondo lei si fida dei critici letterari? Compra davvero un libro per aver letto una recensione su un giornale?
«Non credo che i lettori non professionisti diano retta ai recensori. A meno che i recensori non facciano una pubblicità sfacciata e basta. E comunque si dà retta a una recensione di dieci righe, mentre un articolo letterario ragionato non lo legge quasi nessuno».


E i romanzi-monstrum, come gli ultimi di Walter Siti o quello in arrivo di Massimiliano Parente, da 400-500 e più pagine? La spaventano quando le arrivano a casa?
«Sì mi spaventano, però se stimo l’autore mi ci metto e arrivo fino in fondo anche se sono molto lunghi: è per questo che il penultimo romanzo di Siti sono arrivato a recensirlo dopo dieci mesi che era uscito».

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