Requiem per l’islam laico

Massimo Introvigne

Condi Rice se n’è fatta una ragione e sta convincendo anche George Bush. In Europa invece tutta la sinistra - ma anche una parte della destra - continua a coltivare illusioni che le elezioni in Egitto, in Irak, in Afghanistan, in Palestina dopo quelle in Turchia e in Malaysia hanno mandato in frantumi. L’Islam laico o non esiste o è moribondo. «Islam laico» è in gran parte semplicemente uno slogan. Lo adottano intellettuali che giurano su Voltaire o sul laicismo di Chirac o di Zapatero, che vorrebbero corrodere il Corano con l’acido del metodo storico-critico, che applaudono chi vieta il velo alle donne e i riferimenti espliciti alla religione nei programmi dei partiti politici. Per molti, che in realtà sono soltanto non credenti e adepti del laicismo nati da genitori musulmani, il riferimento all’Islam è semplicemente un espediente per essere presi sul serio dai governi e dai media occidentali. In effetti, un laicista alla Zapatero con la sola differenza di essere nato in Egitto o in Algeria non sarebbe particolarmente interessante. Il copyright è antico e appartiene a Kemal Atatürk, che in pubblico parlava anche lui di «Islam laico» ma in privato, alla famosa giornalista inglese Grace Ellison, confessava: «Io non ho religione e qualche volta vorrei vedere tutte le religioni affondare in fondo al mare». Sarebbe come se Zapatero, che definisce la religione non oppio ma «tabacco del popolo», comunque nocivo, si presentasse come un «cristiano laico» e non semplicemente come il laicista che è.
Altri riconoscono all’Islam un valore «culturale», che però non basta per essere davvero musulmani. L’«Islam laico», più o meno fasullo, serve da cinico strumento di governo a tutte le dittature arabe e centro-asiatiche che hanno paura di dichiararsi non musulmane, ma i cui capi in realtà non credono né a Dio né al Diavolo, per quanto possano voler conservare - finché fa comodo - qualche aspetto dell’eredità islamica. Un Islam di facciata, che si regge sulla punta delle baionette e che in elezioni libere sarebbe travolto in poche ore.
I veri «musulmani laici» esistono. Li troviamo principalmente in due posti. Nei cimiteri dei loro Paesi, dove spesso sono morti ammazzati. E nelle università e nelle redazioni dei grandi giornali occidentali, dove si sono rifugiati ma dove i più onesti fra loro ammettono che se tornassero a casa e partecipassero alle elezioni prenderebbero l’uno per cento di Chalabi in Irak. Eppure giornali e governanti occidentali continuano a sostenerli, intenerendosi ogni volta che un’algerina si dichiara abortista o un iracheno favorevole al matrimonio degli omosessuali. È già troppo tardi per rendersi conto che costoro non rappresentano l’Islam, neanche quello degli immigrati che certo vanno poco in moschea ma che - come i sondaggi dimostrano - non condividono le fughe in avanti degli intellettuali laicisti. L’alternativa al fondamentalismo non è il fantomatico «Islam laico» ma un Islam conservatore che non mette in discussione il Corano, vuole permettere (non imporre) il velo e chiede partiti che si dichiarino di ispirazione religiosa almeno quanto le nostre vecchie Democrazie Cristiane. Dove questo Islam conservatore esiste, come in Turchia e in Malaysia, vince le elezioni.

Dove non c’è, e ai fondamentalisti si contrappongono laicisti più o meno travestiti da musulmani, le elezioni le vincono i fondamentalisti. Se la dura lezione che viene dalla Palestina ci convincerà a smetterla di inseguire la chimera dell’«Islam laico» non ci sarà stata impartita invano.

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