La risata è sguaiata e il sorriso s’è spento Non ci resta che Zelig

Tutti che ridono, che tristezza. Da quanti anni, invece, un autore italiano non fa compiere alle nostre labbra quel breve silenzioso movimento verso l’alto, la cui delicata vitalità sale fino agli occhi e li accende di una luce tranquilla e di un insolito fascino? Da quanti anni, leggendo un italiano, non c’è più... sorriso? Quel sorriso diverso dalla risata, che si è ridotta a essere una scarica da automi, nemmeno liberatoria. In altre parole: dove sono finiti gli scrittori umoristi? Quelli sulla scia di Campanile, Mosca, Marchesi, Guareschi o Umberto Domina? Spariti. Rimangono i comici: appunto quelli delle crasse, tristi risate. Ma come sono messi? Imbarbariti.
È sempre più difficile, infatti, trovare una comicità che non sia composta al 90 per cento da volgare sguaiataggine. «Questo perché - spiega il critico Giulio Ferroni - i comici contemporanei sono troppo aggressivi: ricercano costantemente un effetto immediato. La comicità si è ridotta a essere una comunicazione rapida, a scatti, o quando va bene per aforismi: leggibili, fruibili, ma frammentari per definizione. Sui comici grava anche un altro problema: pare abbiano sempre bisogno di un obiettivo da colpire. Buster Keaton e Charlie Chaplin hanno dato un’immagine essenziale del mondo. Di quale comico oggi si può dire questo? Per il presente, tutto si riassume con un verso di Belli: “Chi ride cosa fa? Mostra li denti”. Ecco, gli spettatori o i lettori dei comici attuali nel migliore dei casi mostrano i denti. È ancora ridere? Si è smarrita quella dolcezza sotterranea e indefinibile - persino nostalgica - che dava valore alla risata. Non vedo più delicatezza nei comici, ma solo allusioni grevi e un uso del sesso esteriore e superficiale, che poi è la negazione dell’eros. Manca al comico pure il senso dell’assurdo: lui come i suoi fan sono troppo presi dal ritmo della vita quotidiana. Ma almeno il buffone - che non è giustificato quanto i suoi spettatori - dovrebbe saltare il fosso, giungere al surreale. Invece è sempre sull’ordine del giorno, non stacca mai la spina con la realtà quotidiana più degradata e giornalistica. Quando poi non sa più che fare, scherza su se stesso. Un circuito interno, mortale».
Abbiamo a questo punto interrogato Gino&Michele. «Non si può paragonare - ci hanno replicato - Aldo, Giovanni e Giacomo a Campanile. Sarebbe paragonare il calcio col basket. All’interno della comicità ci sono semplicemente percorsi diversi. La scuola milanese di Cochi e Renato, per esempio, improntata al surreale, al metafisico, è diversa da quella romana, più corporea, carnale. Noi, per professione, guardiamo alla risata pura e semplice: se una cosa non fa ridere, allora è soltanto un tentativo abortito di risata. Se fa ridere, non facciamo distinzioni inutili. Certo, ci sono trucchi che gli addetti ai lavori conoscono bene, come tirare in ballo nei momenti di stanca il presidente del Consiglio oppure usare parolacce, ma il vero comico non si ferma certo a questi ferri del mestiere. La comicità per noi è sempre legata, innanzitutto, a un talento individuale. A proposito dell’umorismo: ha ancora dei cultori, in rapporto di uno a cento con quelli che comprano i libri comici del nostro tempo».
«Anche per me - dice Alessandro Dalai, editore che nella sua carriera ha pubblicato diversi successi della risata - non esistono due generi letterari: quello comico e volgare contrapposto a quello umorista e raffinato. È solo una questione di gradiente. Certo, ci sono libri anche un po’ estemporanei, come Amici ahrarara dei Fichi d’India, che esplodono su mercato, vendono 400mila copie in un mese, e poi nessuno ne parla più: come nessuno, dopo un po’, canticchia più la canzone che vince Sanremo. Sono fortemente trainati dalla dimensione televisiva del loro autore. È accaduto anche con Frittura globale totale di Teocoli o Minchia Sabbry! della Littizzetto. Ci sono però comici oggigiorno ritenuti esagerati nei loro toni che scontano soltanto il fatto di essere gli unici a dire certe cose. Ricordiamoci che anche Guareschi andò in galera. I lettori di domani giudicheranno in modo diverso, per esempio, alcune cose di Paolo Rossi».
«Solo che si è creata una forbice - commenta il critico Andrea Cortellessa - tra intrattenimento di bassa lega, svaccato, pecoreccio, una specie di “funzione Vanzina” dell’editoria, e quell’umorismo che, per usare le parole di Leopardi, “aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra esistenza e ci regala vitalità”. Bisognerebbe recuperare il genere humour in ambito fortemente letterario, prima ancora che sul palcoscenico di un cabaret. La scuola emiliana di Paolo Nori, Ugo Cornia, Cavazzoni sta dando qualche contributo».
“Quasi” tutto a posto, dunque? È soltanto una questione di cambiamento dei costumi? «No» replica il critico Massimo Onofri. «È anche una deriva culturale. Si può essere chiari senza essere espliciti, diceva Baldacci. La comicità oggi è esplicita senza essere chiara. C’è stato questo collasso per cui i comici non possono alludere al contesto politico e culturale. Come può esserci comicità vera, di spessore, in una situazione di tabula rasa? I comici oggi la fanno facile, non potendo altrimenti. È come se giocassero a pallacanestro senza conoscere il terzo tempo. Conta solo lo sgomitare fin sotto il cesto e buttare la palla, cioè ottenere una risata: volgare o no, non importa. Appunto perché il contesto non è più tale. Essere ragionevoli era necessario per lasciarsi andare all’irragionevolezza divina della risata. Ma quando la ragione è in contumacia - come oggi - come può darsi una risata che non sia idiota? Figuriamoci poi dove può essere finito l’umorismo». Ma come è stato possibile, chiediamo allora con un po’ di ansia a Onofri, questo restringimento spirituale? «Ci siamo tribalizzati. La società politica è migliore di quella civile, comici compresi. Il cittadino che accusa il politico di tangenti non ha nemmeno la civiltà di gettare via le cartacce: le lascia sul marciapiede. Il comico va a ruota: suggestiona il popolo attraverso la logica amico/nemico di Carl Schmitt. E così non sta più nel merito reale delle persone che satireggia, avendo la libertà di farlo, beninteso. Sovente non ci fa sopra nemmeno una satira: le deride e basta. L’infrazione delle regole una volta si pagava. Oggi la si usa per ottenere potere. Folengo, Ruzante, gli autori dell’anticlassicismo rinascimentale: decostruivano il potere. Nel nostro tempo i comici, invece, lo cercano. Per questo vendono a prescindere: perché sanno esplicitare - didascalicamente - i malumori della società. Ma i veri comici hanno sempre disatteso le aspettative di tutti. E così, ci rimane solo questa risata senza intelligenza che nasce da una screanzata soddisfazione quasi corporale. Triste, vero?».
Sì, molto triste. Tutta la comicità oggi nasce «vecchia», come «vecchie» sono tutte quelle cose che si fondano sul piacere della disobbedienza e il falso prestigio della trasgressione. Una comicità che ci ricorda quei bambini che dicono “culo” davanti ai genitori: ma se per un bambino è quasi un passaggio obbligato - psicanaliticamente, egli vi sperimenta l’onnipotenza davanti alla proibizione - in un adulto, anche se guitto, significa solo il rifiuto, reale, di crescere. Per tale ragione la facilona “modalità Zelig” della risata ha ucciso (persino sulla carta: provate a ridere leggendo Ale e Franz) la comicità tradizionale, come quella raffinata ed equilibrista, ipnotica e allegra, degli sketch di Vianello e Tognazzi (appena ripubblicati: ne proponiamo un estratto in questa pagina). Stesso discorso per l’umorismo, per esempio, di Rabelais o Savinio: esso non si reincarnerà facilmente nella letteratura, perché era una dimensione della Civiltà più che della Cultura, era un’attitudine dell’anima collettiva. «È vero - conferma il critico Giovanni Pacchiano -. Per me di comici, semplicemente, non ce ne sono più. Né nella letteratura né in televisione. C’è solo una parodia del comico, qualche volta addirittura con pretese intellettualistiche. Per paradosso, il filone meno falso, e comunque moribondo, della comicità sono i film di Natale: si vendono per quello che sono. Non si tratta certo di bei film, ma il loro livello almeno non è quello della parodia. Come non è parodica, ahinoi, l’involontaria disperante comicità dei politici: con le loro successioni di smentite, finti litigi, discorsi artificiosi. Oggi abbiamo solo questi surrogati del comico, dal momento che per esso, come per altre capacità dello spirito, è la forma che determina il contenuto. I valori del vivere civile assicuravano l’esistenza di comici veri e di umoristi profondi, così come le regole della chiarezza del pensiero e del comportamento, secondo gli illuministi, assicuravano una certa felicità concreta: di cui ancora serbiamo il ricordo della possibilità. Oggi, se chiedi a qualcuno cos’è per lui la felicità, la risposta è una sola: avere i soldi. Come aspettarsi in un clima del genere che il cuore rida?».
E che il cuore, addirittura, sorrida? Se la corda del comico vibra a stento nel nostro animo, quella dell’umorismo si è proprio spezzata. Esso richiedeva ascolto, sottile intelligenza - di quel tipo che sa cogliere sfumature quasi impercettibili -, lentezza della vita quotidiana, educazione e galateo (proprio quello che vieta di dire le parolacce), così che si potesse giocare con le leggi di un mondo, di una società, senza mai romperle del tutto.

L’umorismo spegneva attriti, evitava divorzi, riconciliava amanti, placava l’anima nevrotica, e qualche volta precedeva un bacio, cosa che alla risata, peggio se rozza, è impossibile. Che fare allora di questa débâcle, riderci sopra?

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