Riscoprire il valore della bistrattata educazione fisica

Marcello D’Orta

Della lingua latina («talmente» morta che non le si porta un fiore sulla tomba nemmeno il 2 novembre) rimangono nel linguaggio comune molti adagi. Uno di questi è Mens sana in corpore sano. Esso è tratto da un passo di Giovenale (orandum est ut sit mens sana in corpore sano) ed ha un significato diverso da quello che gli attribuiamo. Il poeta afferma che bisogna domandare agli dèi uno spirito forte e un fisico robusto, allo scopo di sopportare le fatiche e sostenere la paura della morte. Noi invece abbiamo dato a questo pensiero una diversa valenza: per essere «perfetti» bisogna avere una mente e un corpo sano.
Come che sia, la scuola italiana, introducendo come materia didattica l’educazione fisica, ha sempre tenuto in alta considerazione le parole del poeta. Alla mens sana avrebbero pensato (si sperava) discipline come la Storia, la Geografia, le Scienze, la Matematica eccetera, al corpore sano, la ginnastica. Edmondo De Amicis, sei anni dopo Cuore (1886) e quattro dopo il Romanzo di un maestro, scrisse Amore e ginnastica, un lungo racconto in cui una maestrina (si noti come la scuola fosse un chiodo fisso per quest’autore) è presentata come apostola della nuova disciplina, da poco introdotta nelle scuole.
Nel 1923, l’allora ministro della Pubblica istruzione, Giovanni Gentile, la tolse dalle scuole, istituendo l’Ente nazionale per l’educazione fisica, ma nel 1929, l’Opera nazionale Balilla la reintrodusse, «investendola» di significati che andavano al di là della sola efficienza fisica (il mens sana in corpore sano divenne un corollario del libro e moschetto fascista perfetto).
Per molti, tuttavia, l’ora di ginnastica si trasformò in una specie di incubo, perché davanti alle pertiche e al cavalletto si rischiava di fare brutte figure, subendo l’ira dell’insegnante e gli sfottò dei compagni. Caduto il fascismo, anche l’educazione fisica fu ridimensionata. Ciò nonostante, agli occhi dei sessantottini (buona parte dei quali parenti stretti di Marx) essa rimase una materia «di destra», perché esaltava il corpo. Gli studenti più estremisti preferirono subire le ramanzine dei professori piuttosto che portare scarpette, calzoncini e tutto quanto «faceva» ginnastica.
Passata la bufera, si capì quanto utile, addirittura necessaria per l’equilibrio psichico di un individuo fosse l’ora di educazione fisica. A Verbania, verso gli inizi degli anni Settanta, l'istituto tecnico Cobianco fu occupato per protestare contro la mancanza di una palestra.
Tuttavia, salvo che nel periodo fascista, questa materia fu sempre tenuta in scarsa considerazione, un po’ come il disegno, il canto, le cosiddette applicazioni tecniche. Serviva spesso per affiancare una disciplina più importante, nella quale l'alunno mostrava tali «carenze» da dover essere rimandato a settembre. Esempi di abbinamenti classici erano: Matematica e Canto, Italiano e Educazione fisica, Scienze e Disegno ecc.
Che l’educazione fisica sia ancor oggi poco considerata è confermato da un recente studio dell’Eupea. I minuti riservati a questa materia, nel nostro Paese, sono i più pochi d’Europa: 528, contro i 1680 della Francia, i 1500 dell’Inghilterra e dell’Austria, i 1400 della Germania, e così via. A questa situazione, qualcuno sta cercando di mettere riparo. Dal mese di gennaio un progetto del Miur, finanziato dal ministero dell’Istruzione e sostenuto dal Coni, porterà la ginnastica nelle scuole primarie, avvalendosi di insegnanti esterni, di «esperti».
Sembra una buona notizia ma non lo è, o lo è in parte. In Italia, solo il 47 per cento degli istituti superiori ha una palestra; al Sud una scuola su cinque svolge educazione fisica... tra i banchi. In molte scuole che possono vantare una sala da ginnastica, mancano del tutto gli attrezzi, e a qualcuna ci piove dentro.


Nell’anno di (dis)grazia scolastica 2005, Edmondo De Amicis, scriverebbe Amore e immobilità.

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