Ritratto di famiglia con editore-padrone

È sempre intrigante l’idea di guardare dal buco della serratura ciò che accade in una «stanza del potere». Spesso i personaggi che vi si muovono assumono, nel nostro immaginario, contorni e fattezze quasi irreali. E invece anche loro vivono facendo i conti con le loro abitudini, le loro insicurezze, i loro tic. Per un appassionato di letteratura, poi, un centro di propulsione culturale come è la casa Editrice Einaudi, e come lo è stata nei primi decenni del secondo dopoguerra, può apparire come un tempio inaccessibile in cui si sono incontrati e hanno lavorato personaggi della statura di un Pavese, di un Vittorini, di un Calvino, di una Ginzburg... Su tutti, l’incontrastato dominio della figura dell’Editore (con la E maiuscola?), Giulio Einaudi. Ad aprirci le porte di questi impenetrabili uffici e a regalarci l’impressione di scoprire nella loro quotidianità questi personaggi è il libro di Ernesto Ferrero, I migliori anni della nostra vita, edito da Feltrinelli. Titolo evocativo: un film di William Wyler del 1946, ma anche una popolare canzone di Renato Zero: «L’ho scelto anche per quello, per evocare sentimenti ed emozioni comuni, le passioni di un’epoca in cui vivevamo un progetto forte», commenta l’autore.
Si sa. Il tempo che passa è come un setaccio le cui maglie ciascuno decide se infittire o allargare così da trattenere solo le emozioni e i sentimenti a misura del proprio io (e, a volte, dell’immagine che si sceglie di restituire). E maglie a misura agiografica sembrano essere state utilizzate da Ferrero per proporci queste pagine distillate di ricordi: tutti, in Einaudi, appaiono buoni, sorridenti, positivi. Le ombre, le inevitabili incomprensioni tra i vari funzionari, le fatiche organizzative imposte da un clima aziendale «padronal-democratico» sono sorvolate o tratteggiate con un condiscendente sorriso. Tutto così roseo in via Biancamano? Qualche dubbio è legittimo, ma se il ricordo ha distorto in parte la realtà, non si può però negare la grandezza degli intellettuali che hanno gravitato presso la casa torinese. E il sincero entusiasmo che li ha guidati nel loro lavoro.
Ferrero entrò all’Einaudi nel 1963 come responsabile dell’ufficio stampa, e poi fu direttore letterario e direttore editoriale. Un personaggio di primo piano nell’editoria italiana: ha collaborato anche con Garzanti, Boringhieri e Mondadori, e dal 1998 è direttore della Fiera del Libro di Torino. Dunque, un uomo avvezzo a frequentare proprio le «stanze del potere».
In alcune grandi aziende va oggi di moda la figura del «manager della felicità», un professionista dedito esclusivamente a garantire il benessere aziendale dei dipendenti. Chissà cosa pensa Ferrero in proposito: certo, Giulio Einaudi avrebbe riso (o sarebbe inorridito?) al pensiero di stipendiare una persona che si occupasse della «felicità» dei suoi sottoposti. Per lui il fatto stesso di lavorare con i libri e per i libri era sinonimo di felicità: «L’editoria non può essere un lavoro forzato. Se è un lavoro in libertà lo fai più volentieri, no? Forse lo fai con un po’ di felicità, non credi? Non è appunto un lavoro che dovrebbe essere felice, questo?», affermò durante un’intervista. E il suo entusiasmo «di inseguire qualcosa che aspetta al di là dell’orizzonte conosciuto, di scovare prima degli altri le cose che stanno accadendo e maturando» contagiava anche i suoi collaboratori, consci di vivere un’avventura culturale unica.
Quando Ferrero varcò la soglia di via Biancamano, alcuni dei collaboratori storici erano già spariti dal palcoscenico della vita: Pavese, innanzi tutto, scomparso tragicamente, paradossalmente soffocato proprio dalla sua mancanza di felicità. «Esiste una storia della felicità di Pavese - sostiene Calvino - d’una felicità nel cuore della tristezza, d’una felicità che nasce con la stessa spinta dell’approfondirsi del dolore, fin che il divario è tanto forte che il faticoso equilibrio si spezza». Di lì a poco se ne sarebbe andato anche Vittorini, lentamente: «Non fu la tragedia improvvisa di Pavese, fu una lunga battaglia che lasciò tutto il tempo allo sgomento». Ma la loro presenza continuò a lungo ad aleggiare per le stanze. Diretta fu, invece, per Ferrero la conoscenza di un Italo Calvino silenzioso e acuto nei giudizi sui romanzi; di una Natalia Ginzburg «solida e minuta al tempo stesso». E poi di Norberto Bobbio. Di Massimo Mila, e di tutti i «privilegiati» che prendevano parte alle mitiche riunioni del mercoledì.
Molti gli autori che bussano alle porte per proporre un manoscritto: tutti con il loro sogno, a volte l’unico, il più grande, quello che può dare senso a un’intera vita. Ma le regole della casa sono spietate: cercare soprattutto testi che fossero in linea con l’indirizzo ideologico, orientando verso altri editori quelli che rivelassero un’impostazione diversa dalla via marxista percorsa da Einaudi (Ferrerò ricorda come da un «no» perentorio alla pubblicazione delle opere di Nietzsche sia «nata addirittura per talea un’altra casa editrice, l’Adelphi», per iniziativa dell’ex einaudiano Luciano Foà).
Gli anni raccontati, dal 1963 al 1975 (proprio l’anno della morte di Pasolini, quando l’Italia stava sprofondando negli anni di piombo), sono stati tra i più fecondi per l’Einaudi. I protagonisti della storia sono un gruppo di intellettuali convinti con i libri «di poter cambiare il mondo». Un’illusione? A voi il giudizio.

Ma certo è che la lettura di queste pagine ci presenta, pur con i limiti di una visione velata dalla passione e dal ricordo, un ambiente in cui tutto sembra possibile. Basta credere al potere della parola. Quella stessa parola che, attraverso la penna di Ferrero, delinea un colorito e interessante «ritratto di famiglia con Editore».

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