La rivolta dei disperati non cambierà il Maghreb

di Fiamma Nirenstein

Possiamo dunque aspettarci oggi una modernizzazione del Maghreb sull’onda della rivolta del pane di questi giorni? I ragazzi in piazza desiderano una società più giusta e egualitaria, oppure presto grideranno che l’islam è la risposta, e se la prenderanno molto di più con gli Usa e l’Europa che con Ben Alì e Bouteflika? Il riflesso condizionato positivo è immediato in noi, figli d’Europa, quando una rivolta porta per distintivo un ragazzo di ventisei anni di nome Mohammed Bouaziz che si da fuoco perché la polizia gli sfascia un povero carretto di frutta, fonte della sua sopravvivenza dopo essersi invano laureato. Per chi dobbiamo tenere, del resto, se l’altra vittima famosa ormai in carcere, Ben Amor, è un rapper di 22 anni che canta «Presidente il tuo popolo muore» mentre il numero dei morti, in Tunisia sale di ora in ora e si allarga la rivolta, e il pane aumenta del 30 per cento?
Fino a pochi giorni fa non sapevamo bene che cosa stava succedendo in Tunisia, dato che il governo di Ben Alì, il presidente che aveva mandato a casa Habib Bourghiba, aveva messo il silenziatore alla piazza e al crescere della repressione contro i giovani in blue jeans e sneakers, ai morti teen agers, al fatto che, via via, tutta la società tunisina è scesa in piazza, che persino il 95 per cento degli avvocati ha scioperato, che gli hacker, dalla autocrazia araba al cyberspace, hanno messo fuori uso tutti o quasi i siti governativi, che i sintomi del fatto la gente non ne può più sono diffusi per ogni dove.
Poi i riflettori si sono accesi: è scoppiata l’Algeria, ed essa ha enormi, potentissimi riferimenti spettacolari nella nostra mente, la casbah candida nascondiglio storico di comunisti e islamisti, la rivolta anticoloniale, il film di Gillo Pontecorvo “La rivolta di Algeri”, l’origine pied noir di Albert Camus, e poi l’orrore contemporaneo: la mattanza iniziata nel 1988 con la più feroce aggressione integralista islamica che si sia mai vista, una guerra che ha fatto fra i 150mila e i 200mila morti estendendosi dallo scontro fra il Fis e i militari all’eccidio della popolazione. E adesso l’Algeria, insieme alla Tunisia, è di nuovo teatro di violenza a causa di una “rivolta del pane” causata solo occasionalmente dall’aumento incongruo del prezzo dei generi primi, ma, ognuno lo capisce, sostanzialmente dalla prepotenza classica del governo “moderato” arabo, dal fatto che il 75 per cento della popolazione ha meno di trent’anni, che i giovani sono uno strabordante mare in ebollizione, che la gran parte di loro vaga senza prospettive in una società in cui ancora si vive in tre, quattro famiglie in una casa e le politiche di controllo delle nascite sono fallite. L’Algeria che conta tiene rinchiusa in cassaforti sociali dorate la forte produzione energetica del Paese, i cui proventi sono destinati solo a gruppi sociali ristretti, usa i cinesi invece della forza lavoro locale, non ha saputo sfruttare le infrastrutture ereditate nel ‘63. Insomma, della gente non si è occupata affatto e questa incuria può sollecitare l’astuta e potente rete islamista sempre in agguato.
Questa marea soprattutto di giovani infuriati e disposti a morire è certo un movimento sociale di modernizzazione, ma proprio per l’egoismo laico il dogma islamista può travolgere la loro sete di giustizia. Nel passato, ci siamo immedesimati con tutto quello che ci sembrava una rivolta a favore dei poveri: ma è stata maestra la rivoluzione iraniana, in cui i tratti sociali erano innegabili e fortissimi, e di cui in molti si innamorarono, ma che poi ha dato vita a un potere integralista religioso, imperialista e violatore di tutti i diritti umani. Adesso quindi si impone la cautela e anche l’impegno per aiutare davvero la gente in rivolta per il pane e per la grande chimera del mondo arabo, la democrazia. « C’è di buono che non esiste più il substrato islamista del mondo giovanile, si è scollato il rapporto sociale fra masse fanatizzate e la gente quando l’affermarsi di Al Qaida ha trascinato i giovani borghesi nelle sue file. I ragazzi poveri non fanno parte di questa vicenda», dice Khaled Fuad Allam, sociologo dell’Università di Trieste e commentatore algerino. Insomma, sono finiti i tempi in cui, racconta, quando studiava all’università di Orano, venivano tolti persino le forchette e i coltelli di plastica per evitare gli scontri fra giovani laici e religiosi. E poi, siamo chiari, c’è anche stata una decimazione fisica paurosa di islamisti a seguito della guerra di massa che per tanti anni hanno insanguinato l’Algeria.
Insomma, ancora l’islamismo non è qui, non è presente in massa, ma già si insinua a cercare nelle università e nelle moschee per guidare i giovani arrabbiati proprio come in Egitto, in Giordania, in Arabia Saudita.

Perché “Paese arabo moderato” non vuol dire onesto, rispettoso dei diritti, e bravo nel governare il proprio popolo, e noi tendiamo invece ad accontentarci di quell’aggettivo. Proviamo a dire la parola “democratico”, magari funziona contro gli estremisti islamici.

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