Roth timbra il cartellino del trentesimo romanzo

D evo confessarlo, sta diventando un problema. Perché io credo a Philip Roth quando l’intervistatrice italiana gli chiede genuflessa di raccontarle il suo ultimo trentesimo romanzo, L’umiliazione (Einaudi, pagg. 150, euro 17,5) e lui le risponde se per cortesia, al contrario, può raccontare lei a lui la trama, perché ha appena finito il trentunesimo e fa confusione, non se lo ricorda bene. Non è un vezzo, ne sono sicuro, perché anch’io faccio confusione con gli altri Roth letti in precedenza, figuriamoci lui.
La bravura di Roth è non deludere le aspettative, se non, ormai, proprio nel non disattenderle, non uscendo mai dal binario morto tracciato a tavolino, vivo perché morto. Un nome una garanzia, un trademark, come andare al McDonald’s e ordinare un Big Mac, o come comprarsi un paio di Todd’s modello classico, e quindi andare alla Feltrinelli e chiedere «Mi dà l’ultimo Roth?». La bravura di Roth è una scrittura collaudata che apre e chiude il libro come un compito in classe, non va né avanti né indietro, ormai svolta sempre in cento paginette, prima che l’idea sfibrata si sfibri del tutto e non resti niente (eppure quanto sarebbe bello continuare a scrivere proprio quel niente dopo la trama, quel che resta del niente). Perché Philip ha un grande mestiere narrativo nel riprodurre sempre lo stesso romanzo e sempre più ridotto all'osso e che tutti alla fine, per coazione a ripetere, leggiamo senza restarne sorpresi né delusi.
La sua fortuna critica negli Stati Uniti è di avere oppositori banali come la famigerata Mikiko Kakutani, sociologica e femminista, che ancora si scandalizza perché il mascalzoncello parla di sesso. Si sarebbero turbati, gli americani kakutanesi, del triangolo tra l’attore fallito, la lesbica e una ragazza, mamma mia, se leggessero le nostre cronache giornalistiche al confronto crederebbero di leggere pagine del Divin Marchese. Io con Roth ho un grosso problema, perché dopo non so mai cosa dire. «Ti è piaciuto?». Se dico «Sì» mi sembra di esagerare, se dico «No» mi sento ingiusto, magari i nostri autorini narratoriali scrivessero almeno come Roth, ma c’è il rischio che qualcuno cerchi di imitarlo davvero, specie dalle parti di minimum fax e Einaudi se ne cominciano a scorgere gli emuli, basta leggere Starnone.
E quindi com’è questo libro di Roth? Non te la senti di dire no, non te la senti di dire sì, alla fine lo elogi più per quello che non c’è che per quello che c’è: non c’è il kitsch della speranza, dell’anima, delle metafisiche, dell’amore Perugina di cui è infarcita la romanzeria d’intrattenimento, e questo mette di buon umore. Eppure, gratta gratta, è anch’esso intrattenimento, nessuno squarcio, nessun buco nero, nessun abisso capace di trascinare il lettore in qualche profondità dell’estetica, della vita e del pensiero. Roth fa incazzare perché arriva sull’orlo dell’abisso ma non lo oltrepassa, arriva lì e torna indietro, proprio sul confine tra narrativa e vera letteratura. Nella fattispecie, nell’ultimo Roth, c’è un attore sessantenne che non riesce più a recitare, rivitalizzato da una ragazza lesbica che porta la solita ondata di vitalità e speranza nella vita del vecchio per poi abbandonarlo alla fine perché la vita è la vita e le cose finiscono così, peggio di come sono iniziate.
Le storie, dette così, lasciano il tempo che trovano e la scrittura di Roth ormai è un timbro di fabbrica, senza sussulti, piana, soppesata, didascalica, aperta e chiusa come una scatola di sardine, dove la tessitura narrativa si svolge serenamente come un centro tavola, se continua così diventerà il Moravia americano o una sceneggiatura per il prossimo film di Woody Allen, il quale però se le scrive da sé. A libro chiuso si sospira non perché si è turbati dal libro ma perché sembra di aver letto un’altra decina di volte lo stesso copione e di essere rimasti esattamente lì, e in effetti è così, pur cambiando l’ordine dei mattoncini Lego. Ci sarebbero, sì, ossessioni in cui sprofondare se stesso e il lettore, perché gli ultimi temi di Roth sono cruciali dell’essere umano: sesso, morte, vecchiaia, decadimento, impotenza, nessuna consolazione religiosa per fortuna, ma il massimo di questa essenzialità tragica resta Everyman, per il resto è una Liala simpatica perché funebre.


Insomma, gli ultimi romanzi sono prodotti e griffe e probabilmente personale terapia antidepressiva da scrittore in pensione, e alla fine ci ritroviamo lì, a aver letto l’ultimo libro di Roth che è l’ultimo libro di Roth che è l’ultimo libro di Roth, e nessuno se la sente di parlarne male, perché non fa schifo e non è un capolavoro ed è uguale ai precedenti, comunque sia è l’ultimo di Roth e quindi ben venga, ci mancherebbe, siamo tutti contenti, l’abbiamo letto, leggeremo anche il prossimo facendo finta di niente. E così quando il protagonista Simon Axler alla fine si suicida ci accorgiamo di non aspettare altro fin da pagina uno e, almeno che non resusciti, siamo salvi dal ritrovarlo nel trentunesimo romanzo.

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