Cultura e Spettacoli

«Con Sacco e Vanzetti porto in tv una storia d’ingiustizia»

Il regista Costa parla della miniserie in onda su Canale 5 in autunno

Cinzia Romani

da Roma

«Questa è la nostra carriera e il nostro trionfo. Mai, vivendo l’intera esistenza, avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione tra gli uomini, come adesso facciamo per un caso del destino». Così muore un anarchico italiano, quel Bartolomeo Vanzetti, che il 23 agosto 1927, prima di spirare sulla sedia elettrica, in una prigione del Massachusetts, insieme a Nicola Sacco, pure lui anarchico e immigrato, dichiarò quanto per sé e per il suo amico, l’esecuzione capitale fosse una sorta di gloria.
E adesso la tragica storia di Sacco e Vanzetti, condannati a morte per l’omicidio di un portavalori e della sua guardia armata durante una rapina in un calzaturificio sarà rievocata dalla miniserie di Canale 5 intitolata ai due anarchici e in onda quest’autunno. Mediaset e Titanus il 31 agosto presenteranno la versione cinematografica della fiction a Campo San Polo, in concomitanza con l’apertura della 62ª Mostra di Venezia.
Se, infatti, la generazione che fu giovane negli anni Settanta ha ancora nelle orecchie la ballata di Nick & Bart cantata con struggimento da Joan Baez, e magari ricorda lo splendido film di Giuliano Montaldo, dedicato nel 1971 al caso Sacco e Vanzetti, un simbolo per uomini e donne d’una certa età, ai ragazzi d’oggi va rinfrescata la memoria. Perché mai come ora si ha bisogno, soprattutto nell’età formativa, di figure emblematiche in grado di rimandare agli ideali di giustizia sociale, al momento mortificati dal terrorismo e non solo. «Tutto ruota intorno alla necessità di non dimenticare e di salvaguardare la dignità dell’uomo» spiega il regista, Fabrizio Costa, classe 1954, il quale detesta «l’afasia culturale nella quale sta sprofondando il nostro Paese». Quando uscì il lavoro di Montaldo sul ciabattino pugliese Sacco e sul pescivendolo piemontese Vanzetti, emigranti tutt’altro che analfabeti, il regista della fiction Cime tempestose era «appena un ragazzo ribelle, come tanti altri in quegli anni di piombo».
Stavolta, al posto di Riccardo Cucciolla e di Gian Maria Volontè, non dimenticabili attori di razza, spesso in prima linea col cinema civile d’impegno degli Anni Settanta, figureranno Sergio Rubini, perfetto con la sua parlata garganica nel ruolo del dignitoso calzolaio Nicola Sacco (nato nel 1891 da contadini benestanti, in un villaggio del Gargano) ed Ennio Fantastichini, che presta la sua figura massiccia all’energico Vanzetti. Nella parte di Rosina, moglie di Sacco, Anita Caprioli, vestita come una maestrina ottocentesca, fasciata da trine romantiche e gonne lunghe.
Girato negli studi di Sofia, dove è stato ricostruito il quartiere italiano di Boston tra fine Ottocento e primi Novecento, Sacco e Vanzetti nasce «all’insegna di un forte intento didattico, per far capire bene il fenomeno della migrazione e i movimenti sindacali negli Stati Uniti fra il 1880 e il 1915» racconta Costa.
«Negli Anni Settanta l’humus culturale era diverso» afferma il regista, che ha preferito puntare su un’empatia di stampo cristiano, facendo emergere la figura di Don Mario (Omero Antonutti), prete di strada coraggioso, pronto a mediare tra gli italiani esclusi da hotel e ristoranti («No dogs, no niggers, no italians») e i loro persecutori. Tra il 1919 e il 1920, infatti, negli Usa cominciò la sistematica persecuzione del socialismo e del bolscevismo. Sacco e Vanzetti si trovarono nell’occhio di un ciclone ostile che avrebbe risucchiato nel suo vortice sindacalisti ed economisti liberali, socialisti e pacifisti. E se oggi le democrazie occidentali patiscono le conseguenze di un’eccessiva tolleranza nei confronti della catena migratoria, all’epoca l’America non andava tanto per il sottile.
«Il Vanzetti di Montaldo era un eroe cosciente, mentre i miei anarchici sono eroi per caso, gente convinta della bontà dei propri principi» illustra Costa.

La riproposizione di quei drmmatici giorni è stata possibile grazie allo scomparso Goffredo Lombardo, produttore lungimirante che intuì subito la valenza attuale di due testimonianze di vita ancor oggi dirompenti.

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