«Salviamo 34 miliardi di opere»

Palenzona (Aiscat) chiede chiarezza sulla realizzazione delle infrastrutture ma non chiude la porta al dialogo sulle concessioni autostradali

Gian Maria De Francesco

da Roma

Separare la riforma del sistema delle concessioni autostradali dal dibattito relativo alla realizzazione di importanti infastrutture già approvate. È questo l’appello che il presidente dell’Aiscat (l’associazione delle concessionarie italiane), Fabrizio Palenzona, ha rivolto ieri al ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro. Lo sforzo richiesto all’esecutivo è quello di non disperdere i 34 miliardi di euro di autofinanziamento per la realizzazione di opere già approvate, oltre ad altri 8 miliardi di iniziative in project financing. Un invito al dialogo per superare le polemiche degli ultimi mesi.
Presidente Palenzona, nella sua relazione all’assemblea Aiscat ha sottolineato che il settore autostradale è impegnato nella realizzazione di opere per 34 miliardi ed è il maggiore investitore privato in infrastrutture del Paese. Questo significa qualcosa.
«L’attuale sistema delle concessioni autostradali consta di piani di investimento che complessivamente ammontano a quella cifra. Ovviamente si tratta di opere che potrebbero essere realizzate nei prossimi anni e che comprendono anche i progetti contenuti nei piani quinquennali scaduti nel 2004 e nel quarto atto aggiuntivo alla convenzione tra lo Stato e Autostrade. Ma quello che conta è che si tratta di piani autofinanziati, approvati dall’Anas, che attendono l’autorizzazione del Cipe e il conseguente decreto interministeriale. Sono priorità già individuate dal governo negli scorsi anni come il Passante di Mestre e le statali Adriatica e Tirrenica».
Il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, ha ribadito che il governo non è più disposto a «fare il passacarte». Come si concilia questa fase con la necessità di nuove infrastrutture?
«Benissimo. Noi non vogliamo un governo che faccia il passacarte. Ma si può vedere caso per caso come sbloccare le situazioni più urgenti. Non si può mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Mandiamo avanti i lavori che sono pronti da quattro anni e contemporaneamente ci sediamo attorno a un tavolo per le opportune modifiche al sistema delle concessioni. Si può fare tutto senza bloccare l’iter per la realizzazione di nuove infrastrutture».
Sempre in assemblea ha fatto l’esempio della Variante di Valico, approvata da Di Pietro e poi bloccata da Bordon.
«In quel caso solo per cominciare i lavori ci sono voluti anni. L’altra esigenza fondamentale, infatti, è quella di metterci d’accordo sul metodo. Capisco il coinvolgimento delle comunità locali ma quando ci sono progetti approvati, ci sono le valutazioni di impatto ambientale e ci sono anche i pareri favorevoli della Conferenza dei servizi, ci deve essere anche un’unica autorità che si esprime sulla materia a valle di tutte queste approvazioni».
A prescindere da cosa deciderà la Commissione Ue, che cosa ne pensa dello stop imposto dal governo alla fusione Autostrade-Abertis a causa della presenza di costruttori nell’azionariato della nuova holding?
«Non è una questione di mia competenza e posso parlarne solo a titolo personale, ma in molti Paesi le aziende di costruzioni sono azionisti importanti delle concessionarie autostradali. Il decreto della presidenza del Consiglio sulla privatizzazione di Autostrade dava però istruzioni in senso opposto e al tempo stesso fissava un lock-up (un impegno a mantenere la partecipazione, ndr) di 36 mesi per i nuovi azionisti. Ma bisogna ricordare che sono passati più di otto anni».
Ad Autostrade e alle altre concessionarie autostradali è stato spesso rimproverato, non ultimo dal ministro Di Pietro, di avere un elevato ritorno sul capitale per effetto degli incrementi tariffari ai quali non corrispondono adeguati investimenti.
«Vorrei sfatare questo mito. I pedaggi, sia per Autostrade che per le altre concessionarie, sono stabiliti attraverso un automatismo, il meccanismo del price cap.

Si tratta di applicare una formula matematica. I problemi nascono quando si discute di investimenti aggiuntivi perché si incide sulle tariffe. Il principio pay per use (pagare per l’utilizzo dell’infrastruttura; ndr) è un buon punto di partenza».

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