Cannes - «Sanguepazzo racconta anche un Paese impazzito. Se un film come il mio tocca un nervo scoperto è perché in Italia rimane, a mezzo secolo e passa di distanza, un’inerzia da guerra civile, si continuano ad usare termini del passato come se fossero presenti. Mi dispiace se qualcuno si offende, ma lo considero un atteggiamento residuale, lontano, non moderno, il perseverare nello stesso atteggiamento sbagliato di allora, quando si scambiò la giustizia sommaria per giustizia reale, quando non ci fu una vera catarsi, ma la sua caricatura. E, a scanso di equivoci, va ricordato che lo Stato italiano diede alla mamma di Luisa Ferida la pensione come madre di una vittima di guerra, che non ci sono prove dell’eventuale colpevolezza di Osvaldo Valenti... Comunque, non debbo saldare conti, non mi interessa fare opera di propaganda o di revisione, sono arrivato a un’età in cui il rancore non ha più senso e prevale la pietà... E non credo di dover ricordare il fatto di provenire da una famiglia che nella Resistenza fece la sua parte...».
Marco Tullio Giordana è un fiume in piena. È arrivato a Cannes con il suo Sanguepazzo, presentato fuori concorso e ispirato all'amore e morte di due divi del fascismo «belli e dannati», vorrebbe parlare del film in quanto tale, ma si ritrova sotto il «fuoco amico» di chi ancora ritiene che l'unico fascista buono sia il fascista morto... «Un ragazzo di oggi non sa nemmeno l'esistenza di due personaggi così, potrebbe essere tutta invenzione, andrebbe letto anche come pura invenzione... Però nella loro storia c’è un pezzo di storia d’Italia e di storia del cinema che, come industria, nasce allora, da un’intuizione proprio del fascismo, la sua forza e il suo limite. È allo stesso tempo una metafora sul mestiere, ovvero quanto si è disposti a vendere l’anima e quanto a salvarla, quanto l'interpretare un ruolo diventa una realtà dotata di vita propria, quanto la leggenda può influire sulla verità. Mi sembrano tutti temi interessanti, degni di discussione, certo, se la stampa poi preferisce isolare il fatto che nel film c’è un bacio saffico, cosa vuole che le dica, non rispondo nemmeno, faccio il regista, mi ritengo un artista...».
Vorrebbe parlare di Sanguepazzo, Marco Tullio Giordana, ma non sempre ce la fa. Ce l'ha con le fiction che inseguono solo il gusto, ovvero il consumismo degli italiani, con una gerontocrazia al potere che blandisce i giovani, ma li castra, con un’opposizione troppo presa dal suo odio fratricida e un governo a cui la mancanza di un avversario che lo stimoli e lo controlli farà nel futuro più male che bene. «Mi preoccupa un certo lato del carattere degli italiani, il nostro essere artisti e giullari, il desiderio di piacere, la paura di essere messi da parte e che ti spinge a correre sempre in aiuto del vincitore. So benissimo che è un discorso generico, di cui sono il primo a vergognarmi, ma mi sembra tornata la voglia endemica di una figura carismatica su cui caricare responsabilità inumane e continuare intanto a farsi i fatti propri. Mentre questo è un Paese vecchio, che andrebbe ripiantato come si fa con le viti, rigenerato, rinvigorito, ringiovanito».
Osvaldo Valenti era chiamato dagli amici Sandokan. «Vidi una sua foto, era a bordo del suo sloop, che poi vendette per debiti di gioco, Le pirate fou si chiamava. Aveva una specie di turbante in testa, il soprannome gli deriva anche da questo, una sorta di corsaro della vita.
Mi incuriosiva il lato demodé dell’epoca, nel linguaggio, nei gesti, l’automobile pronunciata al maschile, certi tic linguistici, ho sempre avuto uno scrupolo antropologico nel rendere i caratteri, filologico quanto all’ambientazione». Rispettosamente, ma filologicamente gli faccio notare che Cinecittà nel 1936 non era ancora in funzione, ma Giordana non è d’accordo e io non insisto perché mi sta simpatico e per oggi ha già avuto troppe amarezze.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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