Lo scandalo che rompe l’ipocrisia

Sono quindici anni che una parte importante del nostro Paese (delle sue élite culturali, giornalistiche, economiche) affida la definizione e la soluzione dei propri problemi sociali alla magistratura, invece di pensare che siano la politica, la famiglia, la scuola a doverli affrontare. Tutta la vicenda scoppiata intorno a Vallettopoli, le intercettazioni, le fughe di notizie, la pubblicazione dei verbali delle indagini giudiziarie, la loro proibizione da parte del Garante non sono che la somma di quindici anni di vita italiana, in cui l’etica pubblica è consegnata nelle mani della magistratura. E ci dovremo anche aggiungere la politica estera e la sicurezza dello Stato: vedi il caso Pollari.
Prima elementare considerazione di filosofia morale. Non può essere il Codice penale a stabilire ciò che è eticamente giusto o ingiusto. Questo sarebbe il fondamento del più crudele giacobinismo e del più infame giustizialismo. Se, per esempio, supponiamo che io abbia il potere di facilitare la carriera di una persona e questa, sapendolo, viene da me spontaneamente a offrirmi, diciamo così, le sue attenzioni in cambio di un mio favore e io queste attenzioni le accolgo con entusiasmo e le premio facilitando quella persona a realizzare le sue aspirazioni, né io, né lei abbiamo commesso un reato punibile secondo il Codice penale, tuttavia siamo entrambi - chi per un motivo, chi per un altro - indecenti, moralmente riprovevoli.
Seconda elementare considerazione di filosofia del diritto. Un processo penale indubbiamente può offrire elementi alla gente per giudicare una situazione, per valutare i comportamenti di una persona. Ma un processo, non un’indagine giudiziaria e, tanto meno, le indiscrezioni fatte uscire ad arte. In un processo viene elaborata tutta la materia del procedimento, si ascoltano le parti in causa, c’è un collegio giudicante e il cittadino che segue la vicenda, alla fine, può formarsi un proprio punto di vista e dare una propria valutazione sul piano etico, anche indipendentemente dagli esiti del processo.
Quindici anni di vita italiana hanno creato invece la consuetudine (quasi fosse la cosa più naturale di questo mondo) che il pubblico ministero sia il controllore della legalità e il sovrano dell’etica pubblica. Questo è un disastro morale (oltre che giuridico) che deresponsabilizza altri livelli della società - politica, famiglia, scuola - perché vengono privati o surrogati delle loro essenziali funzioni. Il degrado morale in cui viviamo non è un’epidemia provocata da un virus sconosciuto, ma è l’evidente conseguenza di una società che non sa più cosa sia la vergogna e dove stia il pudore, che non riconosce il merito e che se ne infischia della professionalità, che premia la volgarità, le bestemmie e gli insulti soprattutto se vengono profusi in televisione.
È un nichilismo diffuso che sta distruggendo la fiducia dei giovani i quali non credono più che lo studio e il lavoro vengano premiati; le famiglie non hanno modelli a cui far riferimento; la scuola è privata del principio di autorità. Da questa melma si erge il moralizzatore: ecco la grande inchiesta che denuncia lo schifo del Paese. Uno schifo vero, ma come viene denunciato? Attraverso una calibrata strategia della comunicazione delle indagini che consente al pubblico ministero di essere lui l’arbitro e lo stratega della vicenda giudiziaria per raggiungere finalità politiche o per semplice esaltazione del proprio ego accusatorio.
Non è impresa ardua di menti raffinate capire allora quale madornale ipocrisia ci sia nel dire «questo si pubblica sui giornali e questo non si pubblica», in riferimento agli atti giudiziari depositati o alle indiscrezioni lasciate passare dai pubblici ministeri durante l’indagine istruttoria. Da questa ipocrisia ci si libera creando lo scandalo, cioè facendo saltare il banco e non stando al gioco.

Se l’inquirente si erge a controllore della legalità e a giudice dell’etica pubblica, se lo seguono acquiescenti giornali, partiti, politici per il loro tornaconto, l’unico modo per scardinare questo sistema è lo scandalo: battere l’ipocrisia con lo scandalo e pubblicare le notizie senza subire il ricatto con cui si pretende che un fatto si possa far conoscere e un altro no.
Stefano Zecchi

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