Lo scrittore migliore si vede all’ultimo inning

Riccardo D’Anna racconta «Una stagione di fede assoluta», romanzo sul baseball italiano, la letteratura e i sogni di gloria

La prima volta che andai a New York, mio padre mi portò da Gallagher’s, la più famosa steak house della città. I tavolini con le tovaglie a scacchi rossi e bianchi, le pareti in legno e, appesi alle pareti, i ritratti delle star di Hollywood e di Broadway, tra cui quelli di Fred e Adele Astaire. I due fratelli presenziarono all’inaugurazione del locale nel novembre del 1927, dopo la prima di Funny Face, il musical di George Gershwin di cui erano protagonisti, e che veniva rappresentato all’Alvin Theater, a pochi passi da lì. Nell’arco degli ultimi ottant’anni, tutto il gotha dello spettacolo, della politica, dell’arte e dello sport s’è seduto ai quei tavoli per mangiare una sirloin steak: da Jack Palance ad Arthur Schlesinger Jr., da Vanessa Redgrave a Mohammed Alì, da David Letterman a Madonna.
Quella sera mangiai sotto la gigantografia di un altro illustre cliente di Helen Gallagher e Jack Solomon, quel Joe Di Maggio di cui sapevo che era stato un mito del baseball e il marito di Marilyn Monroe. Mi ricordai di quella canzone in cui Simon&Garfunkel gli chiedevano: «Dove sei finito, Joe Di Maggio?/ La nazione rivolge a te i suoi sguardi solitari», e quando fummo fuori sulla 52ma Strada, non riuscii a levarmi dalla mente quei due versi di Mrs. Robinson e il ritratto del leggendario battitore degli Yankees. Decisi che per il mio corso accelerato sull’America avevo bisogno di saperne di più su quel misterioso sport. Comprai un grosso libro illustrato sul baseball e per tre notti, in albergo, mi persi tra diamanti, innings e home-runs. Tutto ciò che capii fu che lo studio della fissione nucleare m’avrebbe impegnato di meno e che il fuorigioco nel calcio sarebbe rimasta la regola sportiva più complicata che il mio cervello era disposto ad accettare.
Erano gli anni della Roma di Liedholm, di Pruzzo e di Falcao. Ma il mio idolo era Bruno Conti, che proprio durante quell’estate aveva trascinato l’Italia alla vittoria dei Mondiali spagnoli. Pelè lo elesse miglior giocatore del torneo; i giornalisti iniziarono a chiamarlo MaraZico: ma in fondo, quell’ala destra alta un metro e sessantanove con i capelli lunghi e la frangetta, rimaneva per me il «pelasgio», come lo chiamava Gianni Brera, rievocando il popolo preellenico che s’alleò coi troiani. In effetti, la sua fronte schiacciata, il naso largo e gli arti brachiformi, gli donavano un aspetto vagamente primitivo. Quale fu dunque la mia sorpresa quando lessi che da ragazzino Bruno Conti era una promessa del baseball e che, agghindato come Snoopy, col guantone aperto, aveva ammirato certi tramonti marini sul monte di battuta di un campetto di Nettuno...
Scoprii, così, che in Italia c’era addirittura una lega professionistica per il baseball, e che proprio sul litorale laziale il più americano dei giochi aveva preso piede, per via dello sbarco di Anzio. Immaginai cosa dovesse significare per un tredicenne italiano indossare uno di quegli strani pigiami e le ghette, avviarsi verso un diamante spelacchiato con la mazza e il guantone e intravedere oltre una rete metallica, in una delle estenuanti e malinconiche pause di gioco che il baseball infligge ai suoi adepti, i propri compagni inseguire felicemente un pallone di cuoio in calzoncini e maglietta. E fu così che, senza aver mai visto una partita, m’affezionai al baseball, non a quello della Major League statunitense, ma a quello che si gioca qui da noi, all’estrema provincia dell’Impero, con tutto il carico di solitudine e di derisione che può appesantire la schiena di chi decide di vivere per un paio d’ore l’ingenuità struggente dell’American Dream, tentando di raccoglierne la polvere.
C’è materia sufficiente per scriverne un romanzo. E, finalmente, quel romanzo è uscito. Si chiama Una stagione di fede assoluta (PeQuod, pagg. 184, euro 14) e l’ha scritto Riccardo D’Anna, saggista, poeta, narratore e - udite, udite! - ex giocatore di baseball. «Cominciai a giocare - confessa - sognando di diventare un lanciatore. Fu solo, però, fra il 1980 e 1981 che accadde qualcosa che nessuno della squadra avrebbe mai neanche lontanamente potuto immaginare». In quella stagione, infatti, D’Anna vinse il campionato. «Sono passati vent’anni, da allora. Dove la recinzione finiva sembrava dover finire il mondo. La pallina, battuta verso gli esterni, rigava la notte come la luce di un faro».
L’intera giovinezza spesa a rincorrere i propri miti (Brooks Robinson, Rollie Fingers, gli Oakland’s Athletics, ma pure il Gary Cooper nei panni del malinconico Lou Gehrig), tuffandosi col guanto proteso sul sacchetto della seconda base, davanti a poche decine di spettatori appollaiati su quattro assi di legno che l’immaginazione trasforma nelle tribune gremite del Dodgers Stadium. E alla fine, un’immagine: la squadra in riga, al centro del diamante, coi cappellini in mano, mentre per celebrare lo scudetto suona l’inno di Mameli.
È, al tempo stesso, quell’attimo, lo zenith e il nadir: il massimo trionfo e la fine di un’epoca. La squadra si scioglie, e il nostro lanciatore lascia i vecchi numeri di Sports Illustrated a prendere polvere sugli scaffali. Adesso legge Il migliore di Bernard Malamud, Un anno terribile di John Fante, My Baseball Years di Philip Roth e quell’Underworld in cui Don DeLillo segue il destino della palla con cui il 3 ottobre 1951, al Polo Ground di New York, venne battuto un leggendario fuoricampo. Scrivere di baseball dopo tali giganti, «più che arduo è ridicolo.

È come descrivere una mitologia senza eroi». Eppure, da oggi, quando penserò al baseball, assieme a quel ritratto di Joe Di Maggio che vidi da Gallagher’s visualizzerò l’immagine di un ragazzino italiano che sognava di essere Pete Reiser.

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