La prima volta che andai a New York, mio padre mi portò da Gallaghers, la più famosa steak house della città. I tavolini con le tovaglie a scacchi rossi e bianchi, le pareti in legno e, appesi alle pareti, i ritratti delle star di Hollywood e di Broadway, tra cui quelli di Fred e Adele Astaire. I due fratelli presenziarono allinaugurazione del locale nel novembre del 1927, dopo la prima di Funny Face, il musical di George Gershwin di cui erano protagonisti, e che veniva rappresentato allAlvin Theater, a pochi passi da lì. Nellarco degli ultimi ottantanni, tutto il gotha dello spettacolo, della politica, dellarte e dello sport sè seduto ai quei tavoli per mangiare una sirloin steak: da Jack Palance ad Arthur Schlesinger Jr., da Vanessa Redgrave a Mohammed Alì, da David Letterman a Madonna.
Quella sera mangiai sotto la gigantografia di un altro illustre cliente di Helen Gallagher e Jack Solomon, quel Joe Di Maggio di cui sapevo che era stato un mito del baseball e il marito di Marilyn Monroe. Mi ricordai di quella canzone in cui Simon&Garfunkel gli chiedevano: «Dove sei finito, Joe Di Maggio?/ La nazione rivolge a te i suoi sguardi solitari», e quando fummo fuori sulla 52ma Strada, non riuscii a levarmi dalla mente quei due versi di Mrs. Robinson e il ritratto del leggendario battitore degli Yankees. Decisi che per il mio corso accelerato sullAmerica avevo bisogno di saperne di più su quel misterioso sport. Comprai un grosso libro illustrato sul baseball e per tre notti, in albergo, mi persi tra diamanti, innings e home-runs. Tutto ciò che capii fu che lo studio della fissione nucleare mavrebbe impegnato di meno e che il fuorigioco nel calcio sarebbe rimasta la regola sportiva più complicata che il mio cervello era disposto ad accettare.
Erano gli anni della Roma di Liedholm, di Pruzzo e di Falcao. Ma il mio idolo era Bruno Conti, che proprio durante quellestate aveva trascinato lItalia alla vittoria dei Mondiali spagnoli. Pelè lo elesse miglior giocatore del torneo; i giornalisti iniziarono a chiamarlo MaraZico: ma in fondo, quellala destra alta un metro e sessantanove con i capelli lunghi e la frangetta, rimaneva per me il «pelasgio», come lo chiamava Gianni Brera, rievocando il popolo preellenico che salleò coi troiani. In effetti, la sua fronte schiacciata, il naso largo e gli arti brachiformi, gli donavano un aspetto vagamente primitivo. Quale fu dunque la mia sorpresa quando lessi che da ragazzino Bruno Conti era una promessa del baseball e che, agghindato come Snoopy, col guantone aperto, aveva ammirato certi tramonti marini sul monte di battuta di un campetto di Nettuno...
Scoprii, così, che in Italia cera addirittura una lega professionistica per il baseball, e che proprio sul litorale laziale il più americano dei giochi aveva preso piede, per via dello sbarco di Anzio. Immaginai cosa dovesse significare per un tredicenne italiano indossare uno di quegli strani pigiami e le ghette, avviarsi verso un diamante spelacchiato con la mazza e il guantone e intravedere oltre una rete metallica, in una delle estenuanti e malinconiche pause di gioco che il baseball infligge ai suoi adepti, i propri compagni inseguire felicemente un pallone di cuoio in calzoncini e maglietta. E fu così che, senza aver mai visto una partita, maffezionai al baseball, non a quello della Major League statunitense, ma a quello che si gioca qui da noi, allestrema provincia dellImpero, con tutto il carico di solitudine e di derisione che può appesantire la schiena di chi decide di vivere per un paio dore lingenuità struggente dellAmerican Dream, tentando di raccoglierne la polvere.
Cè materia sufficiente per scriverne un romanzo. E, finalmente, quel romanzo è uscito. Si chiama Una stagione di fede assoluta (PeQuod, pagg. 184, euro 14) e lha scritto Riccardo DAnna, saggista, poeta, narratore e - udite, udite! - ex giocatore di baseball. «Cominciai a giocare - confessa - sognando di diventare un lanciatore. Fu solo, però, fra il 1980 e 1981 che accadde qualcosa che nessuno della squadra avrebbe mai neanche lontanamente potuto immaginare». In quella stagione, infatti, DAnna vinse il campionato. «Sono passati ventanni, da allora. Dove la recinzione finiva sembrava dover finire il mondo. La pallina, battuta verso gli esterni, rigava la notte come la luce di un faro».
Lintera giovinezza spesa a rincorrere i propri miti (Brooks Robinson, Rollie Fingers, gli Oaklands Athletics, ma pure il Gary Cooper nei panni del malinconico Lou Gehrig), tuffandosi col guanto proteso sul sacchetto della seconda base, davanti a poche decine di spettatori appollaiati su quattro assi di legno che limmaginazione trasforma nelle tribune gremite del Dodgers Stadium. E alla fine, unimmagine: la squadra in riga, al centro del diamante, coi cappellini in mano, mentre per celebrare lo scudetto suona linno di Mameli.
È, al tempo stesso, quellattimo, lo zenith e il nadir: il massimo trionfo e la fine di unepoca. La squadra si scioglie, e il nostro lanciatore lascia i vecchi numeri di Sports Illustrated a prendere polvere sugli scaffali. Adesso legge Il migliore di Bernard Malamud, Un anno terribile di John Fante, My Baseball Years di Philip Roth e quellUnderworld in cui Don DeLillo segue il destino della palla con cui il 3 ottobre 1951, al Polo Ground di New York, venne battuto un leggendario fuoricampo. Scrivere di baseball dopo tali giganti, «più che arduo è ridicolo.
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