Sono passati quarantadue anni e sta sempre lì, come un totem con cui nel bene e nel male tocca fare i conti. Il Senato conta gli ultimi voti prima di Natale: approvata la riforma dell’università. È legge. Ma per la Gelmini è qualcosa di più. È un punto di non ritorno, un cambio di orizzonte, un passo che archivia definitivamente il ’68. È ancora presto per dire se è davvero lo strappo con i fantasmi e i residui del Novecento. Questo paese ha ancora troppa paura del futuro, e si arrocca sulle macerie di una cultura che non riesce più a interpretare la realtà, su vecchi luoghi comuni, sui ricordi di gioventù di una casta di sessantenni che hanno bruciato tutti i loro ideali, ma restano innamorati dei loro ricordi. Forse tutto questo è umano. Ma quando vedi ragazzi di vent’anni in piazza per santificare i ricordi dei vecchi capisci che il ’68 è diventata una prigione, un frammento di passato dal quale non si riesce a uscire, una trappola, un’anomalia nel flusso del tempo. Questo il guaio. La cultura italiana è ancora reazionaria. Il paradosso è che la bandiera di questa reazione sia proprio il ’68. Qualcosa a quanto pare non ha funzionato.
I luoghi dove il ’68 ha fallito sono la scuola e l’università. Si è incancrenito nel suo territorio. Non ha mantenuto nessuna delle sue promesse. Avrebbe dovuto spazzare via il sistema feudale dei baroni, le cattedre che passano di padre in figlio, i concorsi addomesticati, la servitù degli assistenti. Ha calpestato il resto, ma i baroni sono rimasti. Si sono messi un vestito democratico, continuando a fare la stessa vita. Quelli di allora sono morti o in pensioni e ne sono arrivati altri, più o meno uguali a quelli di prima. Eppure non è questa la cosa più grave. Pensate a quello che è successo. Guardatevi intorno. Vi siete resi conto di come il sogno dell’università di massa sia fallito? L’università non è più un ascensore sociale. Non è vero che tutti ci possono andare e se anche ci vanno troppo spesso la laurea non cambia il loro destino. Tornano a casa, con la rabbia di chi è stato illuso, tanto quel pezzo di carta da solo non apre nessuna porta. È questa la truffa e pesa sui più deboli. Se l’università non funziona, se la laurea è inflazionata, non ci rimettono i figli dei ricchi. Questi troveranno comunque il modo per non preoccuparsi del futuro. Anzi, tanti non studiano più neppure in Italia. I più bravi cercano l’eccellenza altrove, i mediocri sfruttano le rendite di posizione.
È per gli altri che non c’è partita. È loro che dovrebbero reclamare il diritto di un’università selettiva, con i professori migliori, magari a fare lezione e non a coltivare il loro potere. È in salita, quando la strada si fa dura, che possono battere quelli partiti prima di loro. Se la strada è piana, se si va in gruppo, il talento, la cultura, non fa differenza, non si esprime, e alla fine i criteri di scelta sono familiari e clientelari. È questo il fallimento del ’68. Ha punito i più bravi e i più poveri. Gli ha impedito di giocarsi la partita e di scommettere sulla loro vita. Forse, per cambiare tutto questo, la riforma Gelmini non basta. Traccia un percorso, segna una discontinuità, non risolve il problema. Ecco, gli studenti dovrebbero scendere di nuovo in piazza per dire al ministro di andare avanti, di fare in modo che i soldi, pubblici o privati, rivitalizzino un sistema in coma. Dovrebbero chiedere un’università più dura, senza corsi di laurea farlocchi, senza scorciatoie, dove le cattedre servono agli studenti e non sono un parcheggio per professori precari. È qui la svolta culturale.
È l’unico modo per dare dignità anche al ’68, per non ridurlo a spettro, feticcio. Per non far vivere i ventenni di oggi e di domani prigionieri di un mito, appesantiti da questa zavorra che negli anni si è svuotata di vita, forza, futuro. Nessuno vuole demonizzare il ’68. Quello di cui stiamo parlando non è il desiderio di cancellare un pezzo di passato e tornare al primo Novecento. È esattamente il contrario. È prendere atto che le battaglie migliori di quegli anni sono state vinte, ma non sono la soluzione per affrontare il futuro. Servivano allora, ma adesso sono semplicemente vecchie. È lo stesso discorso del welfare. Il nostro stato sociale è tarato su un modello di lavoro e di società che avevano come fulcro il posto fisso. Come può funzionare in un sistema flessibile? È banale. Ma il prezzo da pagare è alto, perché il vecchio welfare non è più un paracadute, lascia senza speranza gli individui più indifesi. Eppure si considera progressista chi continua a difendere il passato. È il caso di fuggire da questo inganno.
Per non far avvizzire la parte migliore, quella ancora utile del vecchio secolo, il bagaglio che è saggio portarsi appresso, bisogna archiviare il ’68. Questo significa fare i conti con il Novecento. Il Sessantotto va relegato nel calendario della storia. Non è più vita, è memoria.
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