Hanno deciso in sincro anche stavolta. Si sono svegliate una mattina, si sono pettinate i lunghi capelli biondi, guardate allo specchio: di fronte, di profilo, di nuovo di fronte, di nuovo di profilo... Mancava qualcosa. E intanto hanno scoperto, in sincro anche stavolta, che non avevano più voglia della cuffia in testa, del tappo al naso, degli occhi rossi, della puzza di cloro. Si sono accorte di non volere una medaglia sul petto. Ma solo più petto. Vent’anni di vasche e ordine e sacrifici diluiti in un sospetto improvviso, frustati da un dubbio ingombrante: e se fossimo nate per altro? L’altro lo avevano già assaggiato, a dire il vero. La copertina di un magazine che le ritraeva avvinghiate e ammiccanti, la stampa (anche quella sportiva) regolarmente più sedotta dal loro aspetto che dalle loro performance in vasca. Eppure nulla da dire sulle gemelle Feres (Bia e Branca): ventitrè anni, brasiliane, campionesse di nuoto sincronizzato in patria e non solo in patria, ma soprattutto in lizza per le prossime Olimpiadi. Solo che a colpire era sempre il resto, prima della verticale in acqua. Moltiplicato due, oltretutto. Che è sempre un bell’incentivo per le fantasie più banali. Monozigoti, bionde, sodissime, «flirtanti» con l’obiettivo. Corpo da atleta, anima da velina. E alla fine ha vinto l’anima. Non andranno alle prossime Olimpiadi perché hanno deciso di farsi mettere due paia di tette nuove, un po’ più grandi di quelle originali, un po’ più ingombranti di quelle che servono per le capriole sottomarine. Ma utili per una carriera televisiva, come quella che pare vogliano tentare le gemelle. Niente Olimpiadi siamo showgirl. C’erano già il corpo e la faccia, mancavano le tette ed era decisamente di troppo l’acqua.
È così che si sono sottratte da anni di obblighi ed esercizi, da un’abnegazione di dovere, dalla noiosetta, trasparente, composta regolarità che scandisce inevitabilmente la vita di qualsiasi atleta. Come in un film di Gabriele Muccino, si sono sfilate gli obblighi e hanno indossato il perizoma, senza «ricordarsi di loro», cioè di quello che erano prima. La vita è adesso e il cloro secca la pelle. C’è da farne qualcosa di questi corpi messi a regime. Meglio la suggestione di un calendario dell’esattezza della sveglia alle cinque. Della frutta e il cioccolato a colazione, del coach che si innervosisce, dei fan accalcati nell’umido degli spalti, di quei costumi fuori tempo che segano il fianco e quella puzza di cloro... Sul tempo hanno vinto i tempi. Bia e Branca, che tanto sono in due, qualsiasi cosa succeda. E se si è in due vale sempre la pena provarci. Di qua il bordo e il cronometro e il rimmel a prova d’acqua e la fatica e quei neon che fanno l’incarnato color malva. Di là le sigarette e i long drink e le serate «giuste» e la televisione che va certo più svelta di anni di allenamenti: la vasca corta. Perché a stare a mollo non si arriva da nessuna parte e gli anni arrugginiscono. Meglio galleggiare, allora. Tette nuove e nuovissime speranze. Che poi ormai sono sempre le stesse. Se perfino due che si allenano da vent’anni sognano di gettare la cuffia e mettersi in coda a Cinecittà, significa che opporsi è inutile e giudicare patetico. Siamo noi, ad aver perso la bracciata. Loro si sentono degne di miglior sforzo che non potrà mai essere severo come quello provato sinora. Sono donne allenate e hanno il fiato lungo e un’immodestia nel corpo che le spinge a uscire dall’acqua. A farsi vedere, non più per quel che valgono ma per quel che sono che poi basta e avanza. Perché far fatica, se già basta così e si fa perfino prima? Svuotate la vasca che si comincia: niente profondità, solo abisso. È adesso che ci si tuffa.
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