Sedici anni di «no», così la Cgil suona sempre la stessa musica

Qualcuno dice che uno dei «miracoli italiani» di Silvio Berlusconi si sia manifestato il 12 novembre 1994: la resurrezione dei sindacati con lo sciopero generale (La Finanziaria ’95 non la beviamo era lo slogan) contro una riforma, quella delle pensioni, che uscì immutata nei contenuti due anni dopo con addosso le mentite e sinistre spoglie del governo Dini. A intonare il coro dei «no» era, allora come oggi, la Cgil: uscita a pezzi dopo la marcia dei 40mila, la sconfitta sulla scala mobile e il crollo dell’area politica di riferimento, la stagione della contrapposizione obbligata sembrava definitivamente chiusa con gli accordi del ’93 su redditi e lavoro, al crepuscolo della prima Repubblica.
E invece fu grazie a quello sciopero e a un «nemico» come Berlusconi con tutti i difetti possibili (imprenditore, amico dei fascisti, visceralmente anticomunista) che la Cgil si trovò suo malgrado di nuovo in trincea a fare da sponda a un centrosinistra in crisi d’identità che più di una volta ha cercato nel sindacato rosso un complice per una spallata. Che non è mai arrivata.
La ricetta Cgil è semplice: dire no a tutto quello che propone il centrodestra. Con i soliti, stanchi slogan che da 16 anni a questa parte Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani ripetono come un disco rotto. Otto ottobre 2001: «La Finanziaria per il 2002 non mantiene le promesse elettorali, non è credibile sul fronte della crescita e non è equa», firmato Cofferati. «La manovra correttiva 2010 è iniqua e va cambiata in Parlamento», firmato Epifani, appena pochi giorni fa. In mezzo tonnellate di minacce gravide di sciagura: «Così si smantella il welfare, è una manovra che non dà né rigore né sviluppo, porta il Paese verso la deriva, è estremamente pericolosa» eccetera. Quando il 23 marzo Cofferati riempì con tre milioni di persone il Circo Massimo (500mila per la Questura, ma questa è un’altra storia...), a nove anni di distanza dallo sciopero generale sulle pensioni e sotto l’ombra infame del terrorismo dopo la morte del giuslavorista Marco Biagi, per la Cgil sembrò l’alba di una nuova stagione. Ma fu l’inizio della fine.
La Cgil era scesa in piazza contro la possibile riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che regola i licenziamenti individuali per le aziende con più di 15 dipendenti sulla base della «giusta causa». Dopo lo sciopero l’esecutivo farà una mezza marcia indietro, anche se a sparigliare le carte arriverà il referendum proposto da Rifondazione comunista per estendere le garanzie dell’articolo 18 a tutte le imprese. Ma si sa, chi troppo vuole nulla stringe. Le urne andarono semi deserte, e per la Cgil - unica organizzazione sindacale ad appoggiare apertamente la consultazione referendaria - fu la prima di una lunga serie di sconfitte e l’inizio dell’autoisolamento del sindacato da Cisl e Uil.
Tranne la «fortunata» parentesi del tragicomico biennio 2006-2008, quando la Cgil avallò la sciagurata abolizione dello scalone voluto dall’ex ministro del Welfare Roberto Maroni - un salasso da 7,5 miliardi di euro, pagato inasprendo i contribuiti dei co.co.co. - da anni la Cgil colleziona batoste, come quella sulla nuova Alitalia che ancora brucia; è alle prese con la faida tra presunti riformisti e massimalisti veri; la sua immagine viene macchiata qua e là da dipendenti licenziati anche se malati di cancro e riassunti, cause per molestie e stalking e altri sussurri giudiziari. Lo sciopero generale del 12 giugno contro la manovra, più che un sussulto di vitalità, sembra l’ennesimo tassello di una strategia fallimentare di Epifani. Ma la guerra a sinistra si combatte soprattutto sulla leadership, e anche Epifani, come il suo predecessore Cofferati, è affascinato dalla politica. Soprattutto adesso che il suo mandato è in scadenza.

Ecco perché Bersani ha preso le distanze dalla protesta («se ha una piattaforma coerente con i nostri programmi, allora saremo presenti») mentre l’Italia dei Valori e la sinistra estrema soffia sul fuoco («Il Pd non tentenni, chi non sciopera è complice del governo»). Per Epifani l’ultima piazza è anche l’ultima spiaggia. Prima dei giardinetti.
felice.manti@ilgiornale.it

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