Settant’anni fa le leggi razziali al Senato, ecco come andò

Il dissenso verso le norme volute da Mussolini si manifestò nel segreto dell’urna con 9 voti contrari su 164. Fra i dieci senatori non iscritti al Pnf e presenti in aula, anche Luigi Einaudi, il cui voto contrario era dato per scontato già prima della votazione. Il caso dei 9 senatori ebrei, 4 dei quali fascisti, tutti assenti

Settant’anni fa le leggi razziali 
al Senato, ecco come andò

Le polemiche scatenate nei giorni scorsi dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, sulla mancata reazione della società e della chiesa alle leggi razziali volute da Mussolini hanno provocato un dibattito che ha avuto grande risalto sui mezzi d’informazione. Sintomo della persistenza nella politica e nell’opinione pubblica di una sorta di nervo scoperto che si infiamma, almeno a parole, ogni volta che si tocca il tema della discriminazione.

L’anomalia Le norme sulla difesa della razza arrivarono al Senato del Regno per l’approvazione proprio il 20 dicembre del 1938. La ricorrenza è di particolare importanza proprio alla luce delle considerazioni di Fini a proposito dell’acquiescenza del Paese rispetto alla restaurazione normativa dei ghetti in quanto il Senato era l’unica istituzione politica del Paese non completamente fascistizzata. Infatti della Camera alta, che secondo lo Statuto albertino era di nomina regia, alla fine degli anni Trenta facevano parte molti senatori scelti da Vittorio Emanuele III prima del 1922. Se dunque in Italia c’era un luogo dove il dissenso verso la dittatura poteva manifestarsi quello era il Senato, che proprio in quanto “regio” godeva di una legittimazione autonoma rispetto al regime “che infastidiva non poco i fascisti duri e puri, i quali non a caso periodicamente chiedevano la chiusura di Palazzo Madama. Ecco com'è andata seconda la ricostruzione pubblicata nel libro "Il totalitarismo alla conquista della Camera alta" di Emilio Gentile.

Il voto Alla votazione, svolta a scrutinio segreto, sulle leggi razziali presero parte 164 senatori, i voti contrari furono nove. I senatori non iscritti al Pnf presenti in aula erano Eugenio Bergamasco, Giovanni Ciraolo, Ugo Da Como, Alfredo Dallolio, Luigi Einaudi, Guglielmo Imperiali, Guglielmo Pecori Giraldi, Giuseppe Salvago Raggi, Giovanni Sechi e Paolo Thaon di Revel . Riguardo alla loro posizione nei confronti del regime, secondo il gruppo parlamentare fascista (l’Unione nazionale fascista del Senato), Bergamasco era un oppositore “irriducibile”, Einaudi era “contrario”. Che almeno una parte della sparuta pattuglia dei non iscritti al Pnf avrebbe votato no alle leggi razziali, insomma, in Senato era dato per scontato, anche prima della votazione. Dato che l’Unfs aveva da tempo classificato il futuro presidente della Repubblica, Bergamasco e Da Como fra coloro che frequentavano molto poco Palazzo Madama. Vederli in aula quel giorno e prevedere che nell’urna ci sarebbero stati almeno tre voti contrari fu tutt’uno.

Gli ebrei I senatori classificati di “razza ebraica” in seguito all’approvazione delle disposizioni sulla razza adottate dal Gran consiglio del fascismo il 6 ottobre del 1938 erano Salvatore Barzilai, Enrico Catellani, Adriano Diena, Isaia Levi, Achille Loria, Teodoro Mayer, Elia Morpurgo, Salvatore Segrè Sartorio e Vito Volterra. Dei nove, quattro erano iscritti al Partito nazionale fascista: Mayer, Morpurgo, Levi e Segrè Sartorio. Di questi quattro, gli ultimi due erano stati nominati senatori su suggerimento di Mussolini. Il 5 dicembre, due settimane prima della votazione di Palazzo Madama, la presidenza dell’assemblea aveva informato la segreteria particolare del duce che c’era il rischio che alcuni senatori ebrei avrebbero preso la parola contro le leggi razziali. Mussolini avrebbe risposto “Appurare ma lasciar fare. Peggio per loro. È un modo per risolvere la faccenda”. Pochi giorni dopo il Senato rassicurò Palazzo Venezia: a quanto risultava nessun senatore ebreo era intenzionato a manifestare pubblicamente il suo dissenso. E infatti il 20 dicembre i senatori ebrei non si presentarono a Palazzo Madama. 

Il caso Segrè Sartorio Approvate le leggi, alcuni di loro cercarono di evitare la discriminazione.

Valga da esempio il caso di Segrè Sartorio, che scrisse più volte, l’ultima nel dicembre del 1942, alla presidenza del Senato e a Mussolini precisando di essersi convertito alla religione cattolica il 29 settembre del 1902, di avere sposato una donna “ariana, cattolica, di antica famiglia ligure” e ricordando di essere stato “irredentista e interventista” e di essere fascista dal 23 marzo del 1919. Il giorno in cui nella sala riunione dell’Alleanza industriale di piazza San Sepolcro a Milano veniva fondato il Fascio di combattimento. 

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