Sexgate, il presidente israeliano rischia il carcere

Sposato, padre di 5 figli, è accusato di molestie sessuali dalle sue segretarie. Per lo stesso reato si è dovuto dimettere il ministro della Giustizia

Gian Micalessin

Israele sarà anche il Paese dove si fa più sesso al mondo, come provavano i sondaggi di una multinazionale del preservativo, ma da qui ad avere un presidente e un ex ministro della Giustizia sotto inchiesta per violenza carnale e molestie sessuali ce ne passa. Il momento della verità, però, s’avvicina. Il presidente Moshe Katsav sembra non farsene una ragione e s’aggrappa come una cozza alla poltrona, ma fra breve dovrà fare i conti con l’atto d’accusa. I giudici della procura di Gerusalemme si sono divorati i verbali d’interrogatorio della polizia e sono già lì a scrivere la formale incriminazione. Discolparsi non sarà come bere un bicchier d’acqua. I verbali, a dar retta alle voci, dipingono quel canuto 61enne di origine iraniane, sposato e padre di cinque figli, come una specie di fauno di Terra Santa. Le cinque segretarie scivolate dalle scrivanie ai divani della residenza presidenziale descrivono uffici trasformati nel set di un film pornografico. Con l’aggravante, non indifferente, della violenza e del mancato consenso.
L’ex ministro della Giustizia Haim Ramon è già di fronte ai giudici. Lui al confronto delle sordide accuse piovute sull’onore - e forse anche sulla fedina del presidente - è solo un liceale un po’ troppo disinibito. L’amico e uomo di fiducia del premier Ehud Olmert, anche a prender per buono il racconto dell’ex ragazzina soldato arrivata in tribunale per inchiodarlo, non ha fatto di più che rifilare un bacio un po’ troppo “francese”. Quella linguaccia galeotta, dopo aver mandato in lacrime la 19enne soldatina, ha messo fine alla sua carriera di ministro e rischia ora di trasformarlo in galeotto. La più grave delle sentenze contro Ramon sarà comunque poca cosa rispetto alle pene previste per l’eventuale incriminazione di un Katsav che rischia di passare direttamente dalla residenza presidenziale al carcere.
Se i boccacceschi verbali a suo carico indigneranno anche il procuratore generale di Menachem Mazuz e lo spingeranno a confermare le accuse della Procura di Gerusalemme, Katsav dovrà, così almeno ha promesso, rassegnare le dimissioni e prepararsi a un processo in cui rischia fino a 16 anni di detenzione. Prima di andarsene, prima di piegare il capo e finir di gridare al complotto lui, però, pretende, di vedersi puntato addosso l’indice del procuratore generale. Il mondo politico deve insomma rassegnarsi. Dovrà convivere per almeno due settimane con l’imbarazzo di un presidente costretto a non metter più piede in Parlamento per evitare pubblici insulti. È già successo lunedì, all’apertura invernale della Knesset, ma Katsav non sembra curarsene. Gli schizzi di fango sollevati dalle infamanti accuse non sembrano neppure sfiorarlo.
Per il capo dello Stato quelle cinque donne sono accomunate non dalla sfortuna di avergli acceso i sensi, ma dalla cupidigia di denaro. Shekel, dollari, denari che quelle tapine volevano sottrargli accusandolo di violenze, atti osceni e indecenti molestie. Lui per difendersi le avrebbe intercettate, spiate, tentando persino di fermare i magistrati. Atti e sospetti puntualmente riscontrati da polizia e registrati durante lunghi mesi d’indagini. Ma lui non molla. Sostiene di esser deluso, amareggiato. Gli inquirenti, a dargli retta, sono prigionieri del complotto ordito contro di lui e non prestano attenzione al contenuto di una cassetta registrata. Quella cassetta proverebbe che la signora A. - la donna che lo denunciò per prima accusandolo di violenza carnale - punta solo ad estorcergli del denaro.
Le boccaccesche vicende di Katsav aprono nel frattempo il toto- presidenza facendo immancabilmente moltiplicare le scommesse sulle possibilità di Shimon Peres. L’eterno sconfitto, umiliato nel 2000 da una Knesset che gli preferì proprio Katsav, se ne sta per ora starsene in disparte.

Mentre Kadima, il partito con cui siede al Parlamento, lo ignora; gli ex compagni laburisti lo incoraggiano a riprovarci. Ma a bruciare ancora una volta le speranze dell’ottuagenario Premio Nobel potrebbero arrivare, con la piena benedizione del premier Ehud Olmert, l’ex ministro Nathan Sharansky o il deputato del Likud Reuven Rivlin.

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