Lo sfogo di Marina: «Malgrado l’esproprio ho fiducia nei giudici»

Sarà anche un’intervista «a mente fredda» quella concessa da Marina Berlusconi al direttore di Panorama Giorgio Mulè che la pubblica nel numero oggi in edicola. Ma è un’intervista in carne viva. Un’intervista di accuse roventi. Con gli artigli sguainati. Contro i magistrati autori della sentenza che, riaprendo ancora la «guerra di Segrate», condanna la Fininvest a risarcire con 560 milioni di euro la Cir di Carlo De Benedetti. Contro l’Ingegnere, titolare di «un capitalismo cannibale». Contro «certi politici più o meno improvvisati che costruiscono il consenso sull’aggressione all’avversario». Contro certi editori e giornalisti «che hanno trasformato l’informazione in un campo di battaglia». Ne ha per tutti il presidente della Fininvest e della Mondadori. Si salva solo «quella sinistra rispettosa e non forcaiola... che sarebbe un bene per tutti se riuscisse a farsi sentire».
Marina è decisa a dar battaglia ad oltranza. Se possibile, verrebbe da dire, ancor più del padre. E dunque, schiacciamo il tasto play e ascoltiamo il registratore di Panorama: «A mente fredda», va subito al sodo la primogenita di casa Berlusconi, «dico con chiarezza che c’è un tentativo, fin troppo evidente, di cancellare le nostre aziende dalla storia economica di questo Paese. E con altrettanta chiarezza dico che non ci riusciranno». Snocciola le cifre del contributo del gruppo all’economia italiana: ventimila posti di lavoro, un indotto di oltre 40mila solo per Mediaset, più di 2 milioni di euro tra imposte e contributi versati all’Erario, i primati all’estero. «È tutto questo che si colpisce, si ferisce e si insulta» con quella sentenza che ha realizzato «un esproprio inaccettabile». Una sentenza motivata da 283 pagine che Marina ha letto «con molta attenzione». Ma alla fine, dice, «non si può che arrivare a un’unica, ragionevole certezza: in Italia non esiste più la certezza del diritto. Da ogni pagina delle motivazioni emerge chiaramente l’intenzione di condannarci “a prescindere”».
Sulla scorta della denuncia dell’editore, il settimanale mondadoriano dedica la copertina a «La grande rapina», titolo su uno sfondo bianco dove spiccano i fori lasciati da degli spari. Fu solo uno dei tre giudici della Corte d’Appello di Roma che emise il famoso Lodo da cui tutto nacque a essere ritenuto colpevole di corruzione, ribadisce il presidente Fininvest. Gli altri due giudici non sono mai stati corrotti, e hanno sempre dichiarato di «aver studiato nei dettagli la causa e di non aver subito alcun condizionamento». Semmai, il Lodo deluse suo padre, amareggiato perché vide sfumare il sogno della «grande Mondadori». E accontentò De Benedetti, come dimostrano i suoi commenti all’indomani della sentenza nella primavera 1991 che Marina puntualmente riporta. «L’accordo di spartizione», disse l’Ingegnere all’epoca, «è positivo per una serie di ragioni. Cir ha fatto un investimento importante in Mondadori e ne esce con plusvalenze di qualche decina di miliardi e con liquidità per alcune centinaia di miliardi».
Per tutte queste ragioni, rivela la primogenita del premier, «stiamo preparando il ricorso in Cassazione perché, sapendo di essere nel giusto, siamo certi che le nostre ragioni non potranno che essere accolte». Perché, dice chiaro Marina, «anche dopo questo esproprio inaccettabile continuo ad avere fiducia nei giudici, resto convinta che la stragrande maggioranza dei magistrati faccia il proprio lavoro con onestà ed equità, che resti capace di distinguere i propri orientamenti dal proprio giudizio, basato soltanto sulla legge». Perciò, per Marina è uno scandalo che alcuni magistrati di Milano, «e sottolineo Milano», condannino il gruppo del premier «a versare o meglio a finanziare con 560 milioni di euro l’editore di un gruppo che predica ogni giorno l’eliminazione politica di Silvio Berlusconi».

E che, dice Marina, è capeggiato da un padrone che pratica un «capitalismo cannibale» costellato «di fallimenti industriali - a cominciare da quello, storico, dell’Olivetti - di incursioni manageriali molto discusse come i quattro mesi alla Fiat o i 40 giorni all’Ambrosiano di Calvi».
La guerra di Segrate, madre di tutte le guerre della seconda Repubblica, continua.

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