La sinistra rende onore al falco, ma con la kefiah

da Roma

Quella «figura orribile», quel «militare feroce», quel «guerriero di Dio» oggi in bilico tra la vita e la morte, tra il passato e il presente, ha occupato nello spazio metafisico della sinistra un posto fondamentale: il nemico da abbattere.
Ariel Sharon per lungo tempo è stato questo nell’immaginario collettivo della sinistra italiana. Non si contano le manifestazioni in cui era evocato nella pubblica piazza con una sola parola: «Boia». Ora che quell’uomo è al crepuscolo, la sinistra si interroga sul futuro di Israele e della Palestina e scopre che l’orologio della pace in Medio Oriente potrebbe tornare indietro. Fausto Bertinotti, un avversario della politica di Sharon, rende l’onore delle armi al generale che sta combattendo l’ultima battaglia: «Ha trovato la forza di operare una scelta dal grandissimo valore simbolico».
Il ritiro da Gaza muta la percezione dell’avversario e fa passare improvvisamente «quell’uomo orribile» al ruolo di «figura drammatica». Bertinotti non fa sconti al passato di Sharon, ma ha l’umana pietas dell’istante finale e la lucidità politica per ammettere che il piano politico di Sharon, la rottura con il Likud e la creazione del Kadima sono l’unica opportunità per continuare a far camminare la pace su una non utopista ma concreta road map. Ma anche nella fase estrema del tramonto «il guerriero di Dio» divide e lacera il popolo che indossa la kefiah, galassia lontanissima dalla stella ebraica. Una vera e propria guerra dei due mondi nella politica italiana. La cartina di tornasole è nella prima pagina del Manifesto. Sempre geniale, con quel primissimo piano dello sguardo di Sharon che evoca la bald eagle e si traduce ne «La caduta del falco». L’effetto scenico si traduce in parole di pietra nella biografia, «escalation innanzitutto». È qui che compare, come l’esplosione di una supernova, quell’altro mondo, il mondo che non perdona e non cambia idea e dipinge Sharon come «l’uomo che non ha mai creduto alla pace». Il passo è quello della sentenza senza appello, dove Ariel «più che un leone era un falco», «un guerriero spesso sconfinato in un criminale di guerra», dove il lutto generale è «finto» e il muro eretto per difendersi dai kamikaze diventa uno stratagemma per «mangiarsi altra terra palestinese». Ritratto impietoso di un uomo che in Liberazione si trasforma in «aspirante statista» perché il suo «lavoro si chiude inevitabilmente con un punto interrogativo».

La vita appesa a un filo, il giudizio politico della sinistra italiana su Sharon appeso ai dubbi di sempre, ai riflessi condizionati, alla tentazione di continuare a leggere la storia del conflitto arabo-israeliano con le lenti e le categorie dell’amico-nemico, dove quest’ultimo, invariabilmente, ha la stella di David e anche quando pensa che la pace sia possibile lo fa solo per «convenienza» e non per «conversione».
Se il falco chiude le ali, il pregiudizio della sinistra su attori e comprimari di un capitolo della nostra storia contemporanea continua a volare alto, a roteare come un avvoltoio.

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