«Ma la sola protesta non è il modo di uscire dalla crisi»

RomaL’Innse è salva e scatta la corsa politico-sindacale a far propria la lotta degli operai milanesi. Ma sulle interpretazioni della vertenza Gianni Baratta, segretario confederale Cisl, invita alla prudenza.
Quella dell’Innse è una vicenda esemplare per il sindacato?
«Direi che è una storia finita bene per i lavoratori, che credevano nelle potenzialità dell’azienda, tanto da dirsi pronti a rischiare in proprio, e hanno condotto con modalità intelligenti la vertenza. Costruendo un processo di attenzione e poi credendo in un progetto, fino a trovare un imprenditore disposto a investirci».
Epifani è entusiasta, Cremaschi parla di «conflitto creativo».
«L’unica morale che mi pare emerga dalla vicenda Innse è l’esatto contrario di quanto finora ha fatto qualcuno, ossia limitarsi ad andare in piazza solo per protestare. Qui i lavoratori credevano nelle capacità della propria azienda, avevano un progetto in testa, e invece di provocare disagio ai cittadini hanno attivato l’interesse dei media, delle istituzioni e degli imprenditori. Se invece l’obiettivo è la mera protesta, allora non mi pare una buona strategia per uscire da questa crisi. Né mi pare il caso di parlare di lotta creativa per dire che si prospetta un autunno caldo con 100mila vertenze. Qui la lezione da imparare semmai è un’altra».
E cioè?
«Per esempio che laddove c’è la sofferenza di un’azienda, il primo problema è salvaguardare l’occupazione. C’è soddisfazione per questi 49 lavoratori che portano a casa un risultato, ma dire che per questo siamo di fronte a un cambio di marcia nella lotta sindacale, proprio no. Capiamoci, non è che i 49 dell’Innse hanno vinto perché cinque di loro sono saliti su una gru. Ma perché sono riusciti a spiegare, in modo intelligente, che la loro azienda aveva un futuro. Se però non ci fosse stato un contenuto a riempire la loro protesta, non avrebbero trovato nessuno disposto a investire per salvare l’azienda. Poi qui i protagonisti sono stati i lavoratori, e il sindacato ha solo seguito».
Insomma, la novità è nella proposta, non nella protesta.
«Il modo di spiegare le proprie ragioni è stata l’idea vincente. È il caso di dire che accanto alla giusta protesta ci vuole tanta, tanta proposta. Mi pare questo il valore aggiunto del caso Innse, e non mi pare che le dichiarazioni dei sindacalisti che lei citava mettano in risalto questo aspetto».
Intanto, sui salari territoriali, la Cgil sembra aprire spiragli.
«Come osservatore esterno, mi pare che l’apertura della stagione congressuale della Cgil vivacizza un dibattito che negli ultimi mesi era monolitico. Nessuno fiatava. Ora qualche posizione si chiama fuori da questo inquadramento, e alcune di queste sono interessanti. Per esempio la valorizzazione della contrattazione di secondo livello. Le posizioni massimaliste della Cgil lasciavano intendere che quando la Cisl valorizzava la contrattazione integrativa, lo faceva solo per indebolire il contratto nazionale. Se nella Cgil si incrina questa posizione finora rigida, spero si apra una discussione più ampia, che porti alla riapertura di un dialogo produttivo, orientato alle cose da fare».
Cremaschi, sul punto, invita al sabotaggio.
«Non è la prima volta che i sindacalisti della Fiom usano parole forti. Ci vuole prudenza: in un contesto di preoccupazione sociale, si corre il rischio che una cattiva interpretazione diventi la miccia di un detonatore che porta a cose spiacevoli. Serve concretezza.

In tempi di crisi ci sono cose che possono essere fatte: compito dei sindacati è proporle con un progetto costruttivo, mostrare la capacità di interpretare gli interessi che rappresentiamo con quelli dell’altra parte, arrivando a una mediazione accettabile».

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