Sotto le bandiere rosse una valanga di privilegi: la "casta" del sindacato

Le tre grandi sigle Cgil, Cisl e Uil operano in regime di oligopolio nel business

Sotto le bandiere rosse  
una valanga di privilegi: 
la "casta" del sindacato

Con leggi e leggine si sono rita­gliati privilegi su privilegi. Una norma qui, un articolo là e tutto s’incastra al punto giusto. I sinda­cati dovrebbero tutelare i lavora­tori, ma in realtà sono, come ha in­­titolato un suo libro il giornalista dell’ Espresso Stefano Livadiotti, l’altra casta. Una nomenklatura che spesso si sovrappone e si con­fonde con quell­a ospitata sui ban­chi di Palazzo Madama e Monteci­torio. Nella scorsa legislatura 53 deputati e 27 senatori, per un tota­le di 80 parlamentari, provenivano dalla Triplice. Secondo Livadiotti costituiscono il terzo gruppo par­lamentare, insomma formano una lobby agguerrita quanto se non più di quella degli avvocati. E nel tempo hanno strutturato un si­stema di potere studiato fin nei dettagli.Non che non abbiano me­riti storici impo­rtantissimi nell’af­francamento di milioni di italiani, ma col tempo i sindacati hanno cambiato pelle. E anima. Basti dire che i rappresentanti dei lavoratori hanno un patrimo­nio immobiliare immenso, ma non pagano un euro di Ici. Si fa un gran parlare di questi tempi delle sanzioni di cui gode la Chiesa cat­tolica ma i sindacati non versano un centesimo. Altro che santa eva­sione. Il lucchetto è stato fabbrica­to col decreto legislativo numero 504 del 30 dicembre 1992, in pie­no governo Amato. Con quella tro­vata, i beni sono stati messi in sicu­rezza: lo Stato non può chiedere un centesimo. Peccato, perché non si tratterebbe di spiccioli. Per capirci la Cgil dice di avere 3mila sedi in giro per l’Italia. È una sorta di autocertificazione perché, al­tra prerogativa ad personam , i sin­dacati non sono tenuti a presenta­re i loro bilanci consolidati. Sfug­gono ad un’accurata radiografia e non offrono trasparenza, una mer­ce che invece richiedono punti­gliosamente agli imprenditori. Dunque, la Cgil dispone di un al­bero con 3mila foglie ma la Cisl fa anche meglio: 5mila sedi. Uno sproposito. E la Uil, per quel che se ne sa, ha concentrato le sue pro­prietà nella pancia di una spa, la Labour Uil, che possiede immobi­li per 35 milioni di euro. Lo Stato che passa al pettine le ricchezze dei contribuenti non osa avvici­narsi a questi beni. Il motivo? La legge equipara i sindacati, e in ve­rità pure i partiti, alle Onlus, le or­ganizzazioni non lucrative di utili­tà sociale. Dunque la Triplice sta sullo stesso piano degli enti che raccolgono fondi contro questa o quella malattia e s’impegnano per qualche nobile causa sociale. Insomma, niente tasse e map­pe s­fuocate perché in questa mate­ria gli obblighi non esistono. E pe­rò lo Stato ha alzato un altro ponte levatoio collegando il passato al presente con un balzo vertigino­so. Risultato: le principali sigle hanno ereditato le sedi dei sinda­cati di epoca fascista. Gli immobi­li del Ventennio sono stati asse­gnati a Cgil, Cisl Uil, Cisnal (l’at­tuale Ugl) e Cida (Confederazio­ne dei dirigenti d’azienda). Senza tasse, va da sé, come indica un’al­tra norma: la 902 del 1977. Leggi e leggine. Così un testo ad hoc , questa volta del 1991, permet­te alle associazioni riconosciute dal Cnel di poter creare i centri di assistenza fiscale. I mitici Caf. Qui i lavoratori ricevono assistenza prima di compilare la dichiarazio­ne dei redditi. Attenzione: la con­sulenza è gratuita perché, ancora una volta, è lo Stato a metterci la faccia e ad allungare la mano. Per ogni pratica compilata lo Stato versa un compenso. È un busi­ness che vale (secondo dati del 2007) 330 milioni di euro. Soldi e un trattamento di lusso. Altro capitolo, altro scivolo, altro privilegio: quello dei patronati. Ogni sindacato ha il suo. Il moti­vo? Tutelare i cittadini nel rappor­to con gli enti previdenziali. Co­me i Caf, ma sul versante pensio­nati. Questa volta la legge è la 152 del 2001. Lo Stato assegna ai patro­nati lo 0,226 dei contributi obbli­gatori incassati dall’Inps, dal­l’Inpdap e dall’Inail. Altri trecen­to e passa milioni che servono per far cassa. E per tenere in piedi la baracca. Le stime, in assenza di bi­lanci, sono approssimative ma i sindacati mantengono un appara­to di prima grandezza e hanno cir­ca 20mila dipendenti. Sono i nu­meri di una multinazionale che però si comporta come un’azien­dina con meno di 15 dipendenti. Altrove, vedi lo Statuto dei lavo­­ratori, le tute blu sono tutelate tan­t’è che Berlusconi a suo tempo aveva provato, invano, ad aprire una breccia proponendo la can­cellazione dell’articolo 18. Ma dal­le parti della Triplice valgono al­tre regole, diciamo così, più libe­ral o, se si vuole, meno restrittive. Un’altra leggina, questa volta del 1990, offre a Cgil, Cisl, Uil la possi­bilità di mandare a casa i dipen­denti senza tante questioni. In­somma, è la libertà di licenzia­mento. Una bestemmia per gene­razioni di «difensori» degli ope­rai, dei contadini e degli impiega­ti. Ma non nel sancta sanctorum dei diritti. Due pesi e due misure. Come sempre. O almeno spesso. Per non smarrire le ragioni degli ultimi si sono trasformati nei pri­mi. Creando appunto un’altra ca­sta.

Ora, la Cgil di Susanna Camus­so proclama lo sciopero generale per il 6 settembre e chiama a rac­colta milioni di uomini e donne. Un appello, legittimo, ci manche­rebbe. Ma per una volta i sindaca­ti farebbero bene a guardarsi allo specchio. Forse, qualcuno non si riconoscerebbe più.

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