Più che un film sportivo, è un thriller psicologico Borg McEnroe (dal 9 con Lucky Red), presentato ieri e con successo alla Festa del cinema alle battute finali. Non potevano essere più diverse, infatti, le due primedonne della racchetta internazionale, al centro del racconto d'una sfida infinita, diretta con passione dal regista danese Janus Metz. Se Borg è ghiaccio, McEnroe è fuoco; se il primo vuole stare sul trono per sempre, il secondo fa di tutto per spodestarlo. La psiche di due star leggendarie, che si muovono sul campo da tennis come su un campo di battaglia, viene scandagliata seguendo un copione che mescola realtà e fantasia, recitazione e temperamenti reali, documentario e fiction. Naturalmente, il sanguigno McEnroe non ha apprezzato che il regista lo facesse sembrare un «gradasso», come ha detto lo sportivo. Però questa versione tennistica di Toro scatenato, che nella finale di Wimbledon, 1980, assume toni epici, fa i conti soprattutto con i caratteracci dei due fuoriclasse. E i set sulla terra rossa sono spettacolari. Come il «tiebreak» del quarto set vinto da McEnroe (18-16), surclassato da Borg al quinto. «Il mio film racconta la storia di due ragazzi, ognuno in lotta per dimostrare di essere il migliore, per sentirsi importante, per essere qualcuno. Imprigionati nella loro rivalità, fanno i conti con i propri demoni», spiega Metz che usa un registro epico per suggerire l'importanza storica degli eventi. «Essendo un biopic ispirato alla vita di Björn e di John e, in particolare, alla mitica finale di Wimbledon del 1980, ho voluto rievocare un'era dello sport in cui i giocatori di tennis erano delle rockstar».
Non si tratta, dunque, soltanto di due uomini che giocano a tennis e sfasciano racchette. Sono anche amici, prima d'essere rivali. «Stai tranquillo, è una bella partita. Pensa solo a giocare», suggerisce a McEnroe l'apparentemente controllato Borg, che da ragazzino si allenava contro un garage, alla periferia di Stoccolma. Un tipo duro, non di classe, che i club più snob rimandavano indietro. Col pretesto che il tennis è uno sport d'élite, non per tutti i ceti sociali. A credere in Bjorn, che ha duellato anche con l'ex-moglie Loredana Bertè, un'altra rockstar, è l'ex-tennista Lennart Bergelin, incarnato da Stellan Skarsgard. «In campo sarai come una pentola a pressione. Mi hai capito?», dice il coach all'adolescente bimane, fatto esordire in Coppa Davis a 15 anni solamente. Un mezzo maniaco, comunque, questo Borg, interpretato con realismo dall'islandese Sverrir Gudnason: non calpestava la linea di fondo, perché portava jella; chiedeva sempre la stessa stanza in albergo, le stesse sedie, la stessa automobile. E ogni sera controllava l'incordatura delle cinquanta racchette, dormendo in stanze gelate, per diminuire la frequenza cardiaca.
McEnroe, incarnato con sorprendente efficacia da Shia LaBeouf, il piantagrane dei Transformers, si arrabbia molto e quasi fuma dalle orecchie, se il rivale lo surclassa uno smash dopo l'altro. D'altronde Shia è un ribelle di suo e a volte la polizia l'arresta per ubriachezza: non ha avuto difficoltà a rivestire la parte dell'iracondo.Un punto interessante del film è la scoperta di quanto siano simili i due tennisti, che nel corso delle loro carriere si sono sfidati 14 volte in 4 anni, tra il 1978 e il 1981, totalizzando 7 vittorie per parte. «Il film parla di uno scontro tra titani e dello scontro tra due continenti. Ma alla fine i due ragazzi sono uguali: il prezzo del successo, per loro, è lo stesso. Due rivali che, durante il torneo di Wimbledon, capiscono che la sola persona in grado di comprendere quello che l'altro stesse vivendo, era l'avversario», racconta il regista, che per mettere a fuoco il tumulto interiore di Björn e John, usa la camera a mano e la steady-cam, trasmettendo un senso d'immediatezza. E, per i più curiosi, va segnalato che Leo Borg, il figlio più piccolo di Bjorn, qui si cala nei panni del padre, ritratto tra i 9 e i 12 anni. Pare non sia stato facile reclutarlo, ma dopo alcune discussioni con la famiglia Borg, tutto è andato per il suo verso.
Metz, che nel 2010 ha vinto il Grand Prix della semaine de la Critique del festival di Cannes con il docufilm Armadillo, ha impresso al suo biopic il ritmo serrato della serie televisiva True Detective, della quale è regista.
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