Un cowboy e un trans insieme contro l'Aids (e il sistema sanitario)

da Roma

Aveva una «tartaruga» da urlo, che infilava e sfilava da t-shirt attillate in film leggeri e spot milionari. Ma adesso la tartaruga è lui, Matthew McConaughey: la pelle rugosa dell'anoressico, le ossa che spuntano dal corpo scheletrito, a 45 anni “Magic Mike” si fa vecchio rottame per agguantare l'Oscar come miglior attore. Ne sa qualcosa la moglie Camila Alves, che lo sorregge per strada: un budino di tapioca via l'altro e, insieme ai 30 chili del marito, se n'è andata pure la salute. Nel dramma socio-farmaceutico Dallas Buyers Club del canadese Jean-Marc Vallée, ieri in concorso a Roma e dal 30 gennaio in sala, “Killer Joe” sposa due filoni certi, per portarsi a casa la statuetta d'oro: quello filo-gay e quello della trasformazione fisica, con punitivo imbruttimento volontario. Vedi Charlize Theron, lesbo killer (Monster), Natalie Portman, lesbo ballerina (Black Swan) e soprattutto Tom Hanks, avvocato gay devastato dall'Aids in Philadelphia (1994).
Perché qui, nel «Club dei Compratori di Dallas», liberamente ispirato alla storia vera dell'operaio texano Ron Woodroof, morto di Aids nel 1985, si ripete lo schema Philadelphia: due uomini, uno etero e uno no, stringono un sodalizio sentimentale nell'imminenza della morte. Stavolta lo scenario è il Texas bifolco dei rodeo e dei cowboys omofobi, che ignorano Rock Hudson, star morta di Aids nel 1986, però lo disprezzano quando sanno che gli piacevano i maschi. In tale contesto, sguazza come un pesce nell'acqua l'elettricista Ron (McConaughey), che a inizio film fa sesso con due ragazze, guardando un toro scalciare. Un macho in jeans e stivali, che scola birre e whiskey, finché gli diagnosticano il virus dell'HIV: per i medici, ha 30 giorni di vita. Siamo all'inizio della pandemia, che a metà anni Ottanta creerà problemi alle comunità omosessuali Usa: mentre i contagiati muoiono come mosche, la Food and Drug Administration blocca i farmaci utili e sperimenta sulla pelle dei malati roba velenosa come l'AZT. Aggirando i controlli, Ron, che campa, a dispetto dei dottori, s'improvvisa trafficante di pasticche alternative, mettendo in piedi un business con un trans (l'attore e musicista dei Thirty seconds to Mars, Jared Leto, pure lui dimagrito per il ruolo), dapprima schifato come una lurida checca, poi amato come partner d'impresa.
La trasformazione di McConaughey non è solo fisica, ma anche spirituale: introdotto nel mondo gay con avversione iniziale, ne capirà la fragilità, diventandone paladino. Pronto a rischiare l'importazione illegale dei farmaci dal Messico e la persecuzione governativa. Una favola bella, insomma, che fa passare McConaughey da attore di commedie stupidelle a star di razza, col passaporto «gay friendly». A parte la sua bravura, nel film si nota la denuncia del sistema sanitario americano di allora e pazienza per i luoghi comuni: la bella dottoressa (Jennifer Garner) che si fa licenziare, perché rompe con la deontologia professionale, simpatizzando con la problematica gay e la semplificazione eterosessuale=cafone irresponsabile, ma migliorabile con la contiguità omo. E Jared Leto sforna un bel ritratto di drag-queen con calze rotte, vestaglietta rosa e una simpatica ironia mentre flirta, invano, con l'amico cow-boy. «Sono stato sedotto dal personaggio. Un soggetto rappresentato molte volte al cinema, ma sempre secondo stereotipi. Io invece non volevo cliché.

Se oggi è più facile, per la comunità transgender, figurarsi cosa significava, nell'85, andare al supermarket, a Dallas, vestiti da donna», dice Jared, puntando all'Oscar come miglior attore non protagonista. Si avverasse la doppietta, a Los Angeles, avremmo la riprova che, dopo la Palma d'Oro per Léa Seydoux e Adéle Exarchopoulos (La vita di Adele), la tematica omosessuale detta legge. E paga.

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