Cominciò tutto dentro a una botola. Quella del palcoscenico del teatro Quirino di Roma. «Avevo solo diciassette anni, papà mi faceva fare l'attrezzista per il suo Macbeth - ricorda Alessandro Gassmann -. Tutta la tragedia dentro alla botola. Mi pagava 75mila lire». Questo il primo incontro tra l'erede del grande Vittorio e il Sommo Bardo. Trent'anni dopo, «rompendo quello che per me era quasi un tabù», Alessandro ha debuttato nella regia del suo primo Shakespeare, Riccardo III: ora in scena al romano teatro Argentina.
Perché ha aspettato così a lungo per misurarsi con l'autore che, in casa del più celebre Amleto italiano del '900, doveva certo essere familiare?
«Perché, nonostante questa familiarità, io continuavo a sentire difficili, sia pure meravigliosamente difficili, i versi del più grande drammaturgo di tutti i tempi. O meglio: le traduzioni italiane dei suoi versi. Il problema, infatti, era tutto qui. Quando ne ho parlato con Vitaliano Trevisan gli ho detto: Vorrei tanto mettere in scena Shakespeare, ma in modo che risulti comprensibile a tutti. Specialmente ai giovani. E lui mi ha approntato una traduzione finalmente moderna, per quanto rispettosissima, del Riccardo III».
Che poi lei ha sottoposto ad una sorta di «cura dimagrante».
«Ho ridotto lo spettacolo da tre ore a due, i personaggi da 36 a 16, l'ambientazione originale ad un mix di gotico e crepuscolare, che dal Rinascimento va alla Seconda Guerra Mondiale. Risultato: uno spettacolo che ha superato le 150 repliche. E certo il più giovane fra tutti i miei spettacoli. Metà del mio pubblico è sotto i trent'anni. Il che dimostra, fra l'altro, che quando ben presentati, i classici piacciono anche ai ragazzi».
Il recente ritrovamento del suo scheletro ha confermato che Riccardo III era piccolo, storto, bruttissimo.
«Mentre io sono alto, diritto e quantomeno piacente. Allora ho pensato d'ingrandirmi ulteriormente, invece che ridurmi. Porto le scarpe con la doppia suola, le spalle imbottite,
una sorta di gigante della crudeltà. Perché è la cattiveria assoluta, il fascino di questo personaggio. Tutti gli attori - si sa - vogliono interpretare i cattivi. Così possono permettersi in scena ciò che non farebbero mai nella vita. E Riccardo, che cammina sul cadavere della madre, che fa uccidere perfino dei bambini, è il più cattivo fra tutti i possibili cattivi».
Con questo classico lei si prende delle (relative) libertà. Che ne pensa delle regie che stravolgono l'autore?
«Che partono da un presupposto inaccettabile: Vediamo se riesco ad essere più bravo io. Il che, nel caso di Shakespeare, è evidentemente impossibile. Possono risultarne anche dei begli spettacoli. Ma non sono più Shakespeare. Semplicemente».
E al momento di dimostrare quant'era bravo lei, con Shakespeare, cosa le avrebbe consigliato suo padre?
«Una cosa semplice per lui. E impossibile per me. Costruire ogni interpretazione sulla logica del personaggio centrale. Ma siccome io sono distante anni luce dalle sue capacità interpretative, questo Riccardo io ho preferito costruirlo in una forma molto più corale: sulla misura dell'ensemble dei suoi attori. Io ho la fortuna di non essere così straordinario com'era Vittorio Gassmann».
Fortunato?
«Certo. Perché così non posso essergli paragonato».
La sua modestia ha colpito molti, quando ha annunciato di non volersi ricandidare quale direttore del Teatro Stabile del Veneto.
«A giugno terminerò il mio mandato. E io semplicemente lascerò. Credo nella necessità della discontinuità. Tanto più in un Paese in cui l'accaparramento delle poltrone è diventato uno sport nazionale».
E poi lei ha ancora molto altro teatro, e cinema, di cui occuparsi.
«Sì. A maggio uscirà il film In nome del figlio, in cui recito accanto a Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Micaela Ramazzotti e Rocco Papaleo.
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